AUTOBIOGRAFIA SESSUALE di John Addington Symonds

Vi comunico che oggi ho messo in rete un mio nuovo lavoro:

“AUTOBIOGRAFIA SESSUALE DI JOHN ADDINGTON SYMONDS ”.

Si tratta di un testo di una sessantina di pagine, che è anche corredato di note che richiedono l’impaginazione tipica di un libro, e che, quindi, non può essere riportato in un post di un forum.

Il testo è basato su una recente e importante pubblicazione “The Memoirs of John Addington Symonds”, in the critical edition edited by Amber K. Regis for Palgrave Macmillan, 2016, in the Genders and Sexualities in History series, dalla quale ho tratto i testi di Symonds che cito nel mio saggio.

Non si tratta di un qualsiasi libro di Memorie ma della autobiografia sessuale dell’autore, scritta con assoluta aderenza ai fatti e con assoluta trasparenza per lasciare un documento della vera evoluzione sessuale di un Inglese colto nato nel 1840 e morto nel 1893. Ho tradotto in Italiano per la Biblioteca di Progetto Gay  due importanti libri di Symonds, e penso sia veramente utile pubblicare ora, sia in Inglese che in Italiano un testo che illustra l’evoluzione della sessualità di Symonds.

I Memoires di Symonds sono un unicum, perché sono e restano ancora oggi l’unica seria autobiografia sessuale (assolutamente libera da interessi commerciali di qualsiasi genere) che sia stata pubblicata. Va sottolineato che il testo non era originariamente destinato alla pubblicazione perché in Inghilterra, patria dell’autore, l’omosessualità era punita dalla legge criminale e il testo che vi presento sarebbe stato certamente  considerato osceno e la sua pubblicazione sarebbe stata quindi un vero crimine. Non si tratta di un romanzo. Symonds oltre a raccontare i fatti fa esplicitamente i nomi dei protagonisti. Il libro, che ha richiesto all’autore uno sforzo notevolissimo e lo ha allontanato dalla possibilità di perseguire un maggiore successo nel campo della storia dell’arte e della cultura classica, di cui si occupava a livello accademico, è quindi un contributo unico allo studio della omosessualità che al suo tempo muoveva i primi e incerti passi. Va sottolineato che Symonds si sposò ed ebbe quattro figlie, e la storia del suo matrimonio, portato avanti nonostante alcune importanti e serie storie omosessuali, è una testimonianza unica nel suo genere.

Sarò immensamente grato a chiunque leggerà il mio lavoro e vorrà farmi conoscere il suo pensiero in proposito.

Potete leggere il libro semplicemente cliccando sul seguente link:

http://gayproject.altervista.org/johh_addington_symonds_omosessuale.pdf

Ricordo che tutto il materiale di Progetto Gay è sempre e assolutamente gratuito e Progetto Gay non chiede mai dati personali e non conserva alcun dato relativo agli accessi.

STORIA DI UNA COPPIA GAY

Correva l’anno 1962 quando, finita la Scuola Media, fui mandato per il liceo in un prestigioso Istituto religioso non lontanissimo da Milano. All’epoca avevo 14 anni, ero vissuto sempre a Milano e avevo frequentato la Scuola Media a Milano in un altro Istituto religioso, di cui oggi ricordo solo i grandi corridoi coi pavimenti lucidi, gli insegnanti quasi tutti preti e il clima molto ovattato, in cui nulla penetrava del mondo esterno.

Eravamo controllati a vista dall’orario di ingresso a quello di uscita. I miei genitori conoscevano i genitori degli altri ragazzi, perché la scuola ogni tanto organizzava incontri anche tra genitori in occasioni di feste religiose. In terza media cominciai a riflettere sul fatto che in quelle occasioni facevano la comunione nella cappella della scuola, oltre noi ragazzi, che la dovevamo fare per forza, diverse mamme, ma quasi nessun papà, come se la religione fosse una cosa per donne e bambini, ma allora non mi feci troppe domande in proposito.

A quell’epoca non sapevo nulla del sesso, se non che serve a fare i bambini. Ero molto ingenuo e credevo a tutto quello che mi raccontavano gli insegnanti, che, oltre che quasi tutti preti, erano anche tutti vecchi. La ginnastica era una materia di serie B, che si faceva, perché si doveva fare per forza, in palestra e solo con esercizi individuali da svolgere rigorosamente in tuta, escluso ovviamente qualsiasi sport di gruppo. Per evitare ogni possibile rischio che la presenza in palestra potesse risultare gradevole, la palestra non era riscaldata e ci faceva un freddo cane. Nel giorno in cui si faceva la lezione di ginnastica si andava a scuola direttamente con la tuta. Non c’è bisogno di dire che spogliatoi e docce erano cose assolutamente impensabili.

I miei genitori non si occupavano molto di me, io ero affidato alla tata che cucinava per me cose diverse da quelle che mangiavano i grandi. I miei vestiti li comprava mia madre a suo gusto e io potevo solo dire sissignore. Anche logisticamente facevo parte di un mondo separato, avevo una stanza subito prima di quella della tata e questo fa capire come mi consideravano. I miei genitori andavano in vacanza per conto loro con i loro amici e io andavo al mare in un paesetto della Liguria con la tata. Devo dire che con la mia tata andavo d’accordo, a parte il fatto che era l’unica persona con la quale potevo parlare, era una brava donna e mi voleva bene, lei non aveva figli ed era vedova e mi coccolava nei limiti del distacco sociale che comunque ci divideva.

I miei genitori, nelle rare occasioni in cui parlavano con me, mi prospettavano la scuola superiore come qualcosa di serissimo e di difficilissimo che io avrei dovuto affrontare con la massima serietà perché una bocciatura (e allora succedeva) poteva rovinare definitivamente il mio ruolo sociale. La tata invece mi parlava della scuola superiore come di un posto molto più libero in cui ci sono ragazzi grandi che cominciano ad avere la loro autonomia e a fare le loro esperienze, ma io allora non capivo nemmeno a che cosa si potesse riferire.

L’ultima settimana di settembre la tata mi accompagna alla nuova scuola, vado con lei alla stazione, prendiamo il treno e impieghiamo più di due ore per arrivare a destinazione, poi comincia il viaggio in taxi. Mi guardavo intorno smarrito, poi il taxi si ferma e mi ritrovo di fronte ad un edificio sontuoso che intimidiva solo a guardarlo. La tata cerca di farmi coraggio.

Saliamo lo scalone e arriviamo agli uffici, ci fanno attendere una decina di minuti, poi ci si presenta un prete. Basta che la tata dica il mio nome, è tutto molto informale. Il prete congeda la tata e mi accompagna nella sartoria dove la sarta prende le misure per la mia divisa, poi mi accompagna in una enorme camerata con una doppia fila di letti e mi dice che il mio è il numero 18. Mi dice qual è il mio armadio per conservare le mie cose e noto che non c’è la chiave, poi mi dice di sistemare le mie cose nell’armadio e mi dà un libretto a stampa con il regolamento della scuola e del collegio, mi dice che posso andare nella sala di ricreazione “del ginnasio” per leggere il regolamento e che alle 13.00 dovrò andare al refettorio per il pranzo. Mi raccomanda di leggere con la massima attenzione il regolamento e se ne va.

La camerata era totalmente vuota, non c’erano altri ragazzi e nemmeno preti. Ho sistemato le mie cose nell’armadio e poi sono sceso nella sala di ricreazione che ho trovato tramite una piantina dell’edificio annessa al regolamento. Anche lì non c’era nessuno. Mi sono seduto su una sedia e ho cominciato a leggere, ma allora non ero capace di decodificare i significati di quei messaggi. Si insisteva moltissimo sul fatto che fosse una scuola cattolica e che come tale esigesse dagli studenti un’adesione ai principi del cattolicesimo, che io conoscevo come poteva conoscerli un ragazzo di 14 anni. C’era la gerarchia della scuola, in cui tutto era in mano ai professori e al preside, ovviamente tutti preti, e c’era la gerarchia del collegio, in cui tutto era in mano agli educatori, al padre spirituale e al rettore, ovviamente anche loro tutti preti, ma il rettore era superiore al preside perché al rettore competeva anche la “formazione spirituale” degli alunni. Tutte queste cose, allora mi sembravano ovvie.

C’era anche una parte che trattava delle punizioni per lo scarso impegno scolastico e per la condotta morale non regolare, che allora io interpretavo al livello dei miei 14 anni. Si diceva anche che ciascun alunno che avesse commesso una mancanza avrebbe dovuto accusarsene di fronte ai superiori che l’avrebbero valutata caso per caso e, se fosse stata applicata una sanzione, quella sarebbe stata annotata nelle note di comportamento che sarebbero state trasmesse mensilmente alla famiglia. Il regolamento era molto dettagliato ma nello stesso tempo molto generico, tutto, in concreto, era lasciato all’interpretazione dei superiori.

Terrorizzato dall’idea di fare tardi per il pranzo, alle 12.45 ero davanti al “refettorio del ginnasio”. I refettori erano due, uno per il ginnasio e uno per il liceo, per tenere separati i ragazzi di età diversa, e in quello del ginnasio non c’era nessuno. La porta era chiusa a chiave, alle 12.55 una cameriera ha aperto la porta e io sono entrato. Il salone era immenso, mi sono seduto al primo tavolo che ho visto ma la cameriera mi ha detto che quello era il tavolo dei superiori e allora sono andato a mettermi all’ultimo posto, ma mi ha detto che dovevo mettermi al numero 18 (lo stesso del mio letto) e così ho fatto, perché davanti ad ogni posto c’era un numero. L’ambiente era molto solenne. Sui tavoli c’era una tovaglia bianca, tutti i piatti e le posate portavano le insegne dell’istituto e così anche il tovagliolo, che era numerato. Il mio, ovviamente, portava il numero 18.

La cameriera si era fermata e stava zitta e io non capivo per quale motivo. La guardai perplesso e lei mi fece: “La preghiera!”, poi vedendo che non capivo mi disse che prima del pranzo la persona più importante presente doveva recitare la preghiera per tutti e siccome lì c’ero solo io dovevo recitarla io e aggiungere un’intenzione. Non sapevo che cosa dire e lei mi suggerì: “Segno della croce”, poi mi mise proprio in bocca le parole: “Signore, ti ringraziamo per questo cibo, fai che ci rinforzi sulla via della fede e del tuo servizio” (questa era la formula standard, per quando non c’erano giornate speciali), poi mi disse di aggiungere l’intenzione e io dissi: “Ti preghiamo per questo anno scolastico che sta per cominciare”.

Poi finalmente il pranzo fu servito. La cucina era di buon livello, opera di cuochi professionali. Un primo abbondante ben condito, un secondo di carne con contorno di verdura e la frutta. La cameriera mi avvisò che alle 13.30 dovevo andare via in ogni caso perché lei doveva chiudere il refettorio. Alle 13.30 non sapevo dove andare. L’istituto era praticamente vuoto. Sono tornato nella sala di ricreazione del ginnasio e mi sono messo a leggere delle riviste che stavano sui tavoli, ovviamente tutte riviste cattoliche e di missionari.

Nel pomeriggio, verso le 15.30 è arrivato un altro ragazzo. Ci siamo presentati, era impaurito come e più di me. Prima di tutto abbiamo cercato di capire come avremmo dovuto comportarci all’ora di cena poi abbiamo parlato di quello che ci aspettavamo dalla scuola. Alle 19 siamo andati in refettorio per la cena, io mi sono messo dove mi ero seduto all’ora di pranzo e il mio compagno si è messo accanto a me, ma la cameriera gli ha detto che lui era il numero 26 e che il suo posto era all’altro tavolo, io ho recitato la preghiera e l’intenzione e così abbiamo cenato in due, seduti a due tavoli separati in una sala enorme in cui c’eravamo solo noi.

Dopo la cena siamo tornati nella sala di ricreazione perché non sapevamo dove andare. Lì è passato un prete e ci ha detto che non si deve mai stare senza fare nulla e che potevamo andare in cappella a pregare e noi ovviamente ci siamo andati, francamente non capivo a fare che cosa, ma abbiamo obbedito come se tutto fosse assolutamente ovvio. Alle 20.45 la cappella ha chiuso e noi siamo stati mandati nella nostra camerata, dove il nostro educatore (un prete, ovviamente) ci ha dato una camicia da notte della misura adatta, fatta dalla sartoria, ovviamente con le insegne dell’istituto e un contenitore di metallo con l’essenziale per un minimo di igiene personale: sapone, dentifricio e spazzolino. Ci ha detto che l’indomani avremmo avuto 10 minuti per fare la doccia, tra le 6.10 e le 6.20, prima di andare in cappella per l’educazione religiosa. Ci ha detto che alle 21.00 dovevamo essere a letto e che lui sarebbe passato per controllare prima di spegnere la luce. Alle 21.00 eravamo a letto, l’educatore è passato ed ha spento la luce ma non ho capito da dove, perché non c’erano interruttori, poi ha detto “santa notte” non “buonanotte” e se ne è andato.

Ero abituato ad andare a dormire a mezzanotte e il fatto di dover stare a letto dalle 21.00 non mi piaceva affatto, ma le regole erano quelle. L’indomani alle sei in punto è suonata una campana, che era il segnale della sveglia. Siamo andati nella sala da bagno, dove c’erano 10 box con water e lavandino e 10 box per la doccia. I box avevano una porta con serratura ma la porta non arrivava fino a terra, ho capito solo dopo che le porte erano fatte così per controllare che in ogni cubicolo ci fosse un solo ragazzo, ma all’inizio non facevo caso a queste cose.

Alle 6.30 eravamo in cappella per l’educazione religiosa, in tutto c’erano otto ragazzi tutti del ginnasio 14-15 anni. I banchi della cappella erano numerati come i posti a tavola. La cappella non era la chiesa grande dell’istituto, ma una cappella utilizzata solo da un gruppo di classi, nel mio caso le classi del ginnasio (80 ragazzi circa) in cui diceva messa uno degli educatori a turno. Ho imparato che non c’era un educatore per classe ma che al ginnasio c’erano due educatori che ruotavano sulle due classi, in modo che si scambiavano le classi ogni mese, all’epoca non capivo il senso di tutto questo e l’ho capito soltanto parecchi anni dopo.

Comincia la messa, poi al momento dell’omelia comincia l’istruzione religiosa, centrata sull’idea di “fuggire le cattive compagnie” in cui però si dava per scontato che cosa fossero le cattive compagnie e si insisteva che “volere bene ad un compagno” significa “preoccuparsi per lui” e proprio per questo quando un compagno “non si comporta bene” è un preciso dovere morale segnalarlo ai superiori. In pratica è un dovere morale fare la spia.

Quel giorno sono arrivati molti miei nuovi compagni di studi. Eravamo una quarantina nella mia classe. Arrivavano alla spicciolata. Non c’era nemmeno la possibilità di ricordarsi i nomi perché erano troppi. Io mi guardavo intorno per vedere se c’era qualche ragazzo più bello degli altri e fu così che vidi Giuseppe G., un ragazzo che sembrava più grande della sua età e che ormai aveva ben poco di infantile. Allora non capivo perché esercitasse su di me un fascino così potente e magnetico, perché non avevo mai sentito parlare di omosessualità e non sapevo nemmeno che cosa fosse la masturbazione.

Giuseppe era il n. 32, il suo letto era lontanissimo dal mio, nella sala mensa sedeva ad un altro tavolo, avrei potuto parlare con lui solo nella sala di ricreazione, ma all’epoca mi sentivo un bambino non cresciuto e rispetto a Giuseppe provavo uno stato di soggezione come di fronte a un adulto. Ho continuato a parlare col n. 26, che avevo conosciuto il giorno prima, coi numeri 17 e 19, che mi sedevano accanto nella sala mensa, sentivo di non avere niente in comune e tutto si limitava a un ciao veloce e formale.

L’istruzione religiosa del giorno appresso è stata sulla “correzione fraterna” cioè in pratica ancora una volta sul dovere di fare la spia. Giuseppe lo vedevo solo da lontano ma più lo osservavo più mi piaceva. Il giorno appresso l’istruzione religiosa è stata su due cose distinte: “fuggire la tentazione” e “frequentare i sacramenti”. Ci veniva detto e ripetuto che un ragazzo cristiano si comunica ogni giorno ed ha un padre spirituale che lo possa guidare nella ricerca della santità. Non frequentare quotidianamente i sacramenti era visto molto male come una specie di marchio di satana, una forma di ribellione luciferina. Molti ragazzi cominciavano a storcere il naso davanti a questi discorsi che a me invece sembravano giusti e ovvi, molto semplicemente perché io non avevo niente di speciale da confessare.

Quando andai a confessarmi, senza confessionale, con uno degli educatori, mi sentii chiedere con insistenza: “Non hai da accusarti di niente altro?” e al mio “no” il confessore era alquanto perplesso. Volenti o nolenti, tutti i ragazzi finirono per accettare l’imposizione della confessione. Il primo giorno di scuola cominciò con una messa officiata da un vescovo e dal rettore, che vedevo per la prima volta e da lontano. Noi, per la prima volta, eravamo vestiti con la divisa dell’istituto e tirati a lucido fino all’incredibile. I nostri posti in chiesa erano tutti assegnati a priori. L’omelia del vescovo fu brevissima, poi parlò il rettore ma io ero distratto perché nella chiesa grande Giuseppe era capitato proprio tra me e il celebrante, una specie di “uomo dello schermo”. Giuseppe era serio durante la messa e si comportava come ogni altro collegiale obbediente.

Finita la messa siamo andati nelle aule e sono cominciate le lezioni. Prima di ogni ora di lezione il professore faceva una preghiera e invocava un santo e noi dovevamo rispondere: “Ora pro nobis”. Siamo stati caricati di compiti fin dal primo giorno: sia di Latino (che conoscevamo un po’ dalla scuola media), che di Greco, una assoluta novità. Il primo giorno avremmo dovuto imparare a leggere il pater noster in greco, una cosa che al tempo mi sembrava importantissima e mostruosamente difficile.

Non sapevo come sarebbe stata organizzata la giornata di scuola, pensavo che si potesse studiare ciascuno per proprio conto ma non era così. Alle 13.30 il pranzo, poi la ricreazione fino alle 14.30 e poi di nuovo nelle aule scolastiche del mattino fino alle 18, quando si andava in cappella per l’istruzione religiosa. Potevo vedere Giuseppe solo da lontano e la possibilità di scambiare due parole con lui era ridotta alla mezz’ora di ricreazione tra le 14 e le 14.30.

In classe eravamo tanti, la maggior parte di noi era succube dei professori e degli educatori che ci assistevano (in pratica facevano lezione anche loro il pomeriggio). Giuseppe era l’unico che aveva una personalità sua, era rispettoso e obbediente, perché non si poteva fare diversamente ma qualche volta aggiungeva delle sue considerazioni che in genere non piacevano ai professori e agli educatori, che ci ripetevano che rispondere a una domanda significa tenersi nei limiti della domanda. Giuseppe non era solo bello, ma era anche intelligente, non intendo studioso ma proprio intelligente, aveva anche lui 14 anni ma era straordinariamente sveglio.

Fin dal primo giorno di scuola ci avevano detto che agli studenti più bravi sarebbero stati dati dei riconoscimenti speciali, in pratica delle spillette da appuntare sulla giacca, come le campagne di guerra dei militari. L’alunno migliore allo scrutinio trimestrale poteva fregiarsi di una stella dorata, il secondo della classe di una stella argentata, quelli che non erano stati mai puniti potevano portare un nastrino azzurro all’occhiello. Queste cose erano molto ambite. Io non potevo certo pensare di essere il primo della classe e nemmeno il secondo ma andavo orgoglioso del mio nastrino azzurro. Anche Giuseppe aveva il suo nastrino azzurro perché non era mai stato punito, ma un giorno si tolse il nastrino anche se noi, suoi compagni, sapevamo benissimo che aveva diritto a portarlo. Nessuno, salvo noi, si accorse che si era tolto il nastrino, se se ne fossero accorti, gli educatori lo avrebbero preso come un gesto di ribellione, ma nessuno se ne accorse.

Arrivò il tempo delle vacanze di Natale e tornai a casa, fui molto contento di rivedere la mia tata, non posso dire lo stesso per mio padre e mia madre che ormai erano per me come due estranei. Il rientro a scuola dopo le vacanze di Natale fu per me un momento importantissimo. Sul treno da Milano incontrai Giuseppe che viaggiava da solo e non aveva nemmeno 15 anni, io ero con la mia tata, che però mi lasciò lo scompartimento libero perché potessi parlare con Giuseppe. Giuseppe mi trattava come un adulto e io mi sentivo a mio agio e non posso negare che mi era piaciuto fin dal primo momento il suo modo molto rispettoso di trattare la mia tata. Un contatto con Giuseppe era stato creato e avrei fatto di tutto per non perderlo.

Alla fine del quarto ginnasio fummo promossi entrambi con voti appena più che sufficienti e la cosa non mi rattristò affatto perché vidi il modo di reagire assolutamente indifferente di Giuseppe. Nelle vacanze tra il quarto e il quinto ginnasio ebbi modo di conoscere Giuseppe più da vicino e andai anche a casa sua e mi resi conto che era molto più libero di me, che coi genitori aveva anche un po’ di dialogo serio e poi, anche se allora non lo capivo, mi innamorai di lui. Stavamo sempre insieme, almeno nei limiti del possibile, con la scusa dei compiti delle vacanze che comunque si dovevano fare ed erano tanti.

Il primo ottobre eravamo di nuovo a scuola, ma io adesso avevo un amico speciale. L’istruzione religiosa prese una piega particolare e diventò in pratica un indottrinamento sulla famiglia e sul matrimonio secondo la chiesa cattolica. Si parlava spessissimo della Madonna come madre e come modello di donna, e io non capivo perché si dovesse insistere tanto su queste cose. La verginità della Madonna Mater purissima doveva essere presa come esempio, per me tutti questi discorsi non avevano alcun senso, ma per i miei compagni non erano affatto indifferenti. Non capivo l’enfasi che i preti mettevano sull’argomento ragazze ma poi piano piano mi resi conto dell’imbarazzo con cui moltissimi ragazzi affrontavano quell’argomento, che a me non faceva né caldo né freddo e notai che Giuseppe ci rideva sopra prendendo in giro gli altri compagni, lui non reagiva come gli altri. Ma per me Giuseppe era un amore assolutamente platonico e così rimase fino alla fine del Ginnasio.

Passammo gli esami di licenza ginnasiale per il rotto della cuffia ma li passammo e poi trascorremmo l’estate insieme. I miei genitori avevano conosciuto Giuseppe e si fidavano di lui, e fu così che andai in vacanza con la famiglia di Giuseppe. I genitori mi erano simpatici ma passare l’estate intera con Giuseppe, per me, era come stare in paradiso. Andammo all’Isola d’Elba in una casa della famiglia di Giuseppe. La casa era piccolina e io stavo in camera con Giuseppe. Una sera i suoi genitori si trattennero a casa di amici e io rimasi solo con Giuseppe. È stata la prima volta che ho visto un imbarazzo tremendo sulla faccia di Giuseppe, simile a quello che i nostri compagni avevano quando parlavano di ragazze. Non è stato lui la cattiva compagnia per me ma lo sono stato io per lui.

Non sapevo come comportarmi ma ho seguito l’istinto, gli ho preso la mano e l’ho stretta. Lui non sapeva che fare e io gli ho detto: “Ma di che hai paura? Non stiamo facendo niente di male.” È cominciata così, avevamo entrambi appena compiuto 16 anni. Dopo, Giuseppe era terrorizzato ed è toccato a me fargli capire che non aveva fatto niente di male, lui comunque era veramente sconvolto e si teneva lontano da me come se avesse fatto qualcosa di terribile contro di me e allora gli ho accarezzato la faccia e gli ho passato una mano tra i capelli e lui mi ha fatto un bellissimo sorriso. Il giorno appresso mi ha chiesto se ci ero rimasto male ma gli ho detto che ci ero rimasto benissimo e che gli volevo bene.

Quando si avvicinava il tempo del rientro a scuola mi chiese come avremmo fatto per la confessione e concludemmo che avremmo dovuto fingere motivi ideologici (perdita della fede) se avessimo voluto evitare di profanare i sacramenti e ci trovammo d’accordo che avremmo fatto così, e poi avremmo potuto parlare di ragazze e la cosa sarebbe stata quasi normale.

Il primo ottobre dell’anno successivo, ormai sedicenni, io e Giuseppe entrammo al liceo. Ci aspettavamo che qualcosa potesse cambiare, ma non cambiò assolutamente nulla, adesso in refettorio (il refettorio del liceo) c’erano quasi 120 ragazzi e il refettorio grande (quello del Liceo) sembrava quasi una cattedrale. Ogni tanto si vedeva a pranzo anche il rettore e il padre spirituale. L’ordine era di tipo militaresco, non ci si sedeva a tavola prima della preghiera che, anche al liceo, era accompagnata ogni giorno da intenzioni diverse. Il rettore ci diede il benvenuto e pregò per il nostro impegno negli studi e nella vita cristiana.

Durante le messe in cappella con gli altri liceali notavo che non tutti facevano la comunione e questo mi faceva pensare perché non la facevamo né io né Giuseppe, però gli altri si facevano convincere dagli educatori e la volta successiva andavano a confessarsi e si comunicavano, io e Giuseppe invece non ci lasciavamo convincere. Era ovvio fin dai primissimi giorni che il nostro modo di fare era stato notato e non era affatto gradito. Io fui chiamato dal padre spirituale, che avevo visto solo nella sala da pranzo, e sospettavo che il motivo fosse proprio il fatto che non mi accostavo ai sacramenti.

Era un prete relativamente giovane, tra i 40 e i 45 anni, aveva il modo di fare del prete in carriera che mirava a diventare rettore nel tempo di qualche anno. Io avevo chiesto ai ragazzi più grandi se avevano mai parlato col padre spirituale e mi avevano detto che non lo conoscevano proprio ma che si occupava solo dei “problemi grossi”. Andai al colloquio aspettandomi quello che sarebbe successo. Il padre spirituale mi disse che lui parlava spesso coi ragazzi che gli chiedevano consiglio: prima bugia! Poi partì prendendo le cose molto alla lontana, mi chiese come mi trovavo coi professori, ma su questo punto la risposta era scontata, poi mi chiese dei miei compagni, se ce n’era qualcuno col quale mi trovavo meglio e io ne nominai un paio di quelli che sembravano nati per fare il chierichetto a vita e ovviamente non nominai nemmeno Giuseppe, poi cominciò l’esame inquisitorio: “come va la tua vita cristiana?” e io gli dissi che avrei tanto voluto avere una vita cristiana ma che avevo perso la fede e cominciavo a sentirmi lontano da quelle cose. Lui si mise la stola, dando per scontato che io volessi confessarmi ma gli risposi che l’idea di accostarmi ai sacramenti in modo non spontaneo mi sarebbe sembrata una mancanza di rispetto verso quelli che credono veramente. Il padre spirituale rimase molto perplesso e mi licenziò aggiungendo che avrebbe pregato per me.

Ormai sapevo di essere un sorvegliato speciale, e non sopportavo proprio quella condizione, se fosse stato per me, me ne sarei andato via subito, a costo di affrontare i miei genitori a brutto muso, perché loro l’avrebbero presa malissimo, e me ne sarei andato in un liceo pubblico che pensavo sarebbe stato un mondo completamente diverso, ma non potevo abbandonare Giuseppe. Avremmo potuto farci cacciare entrambi, ma era impossibile capire con quali conseguenze. Si doveva andare avanti con una recita assurda per sfuggire a ciò che sentivamo come una forma di violenza totale. Ci sarebbero stati altri tre anni di vera e propria tortura ma eravamo pronti ad affrontarli.

Con Giuseppe non era possibile nessun contatto, neppure minimo, scambiare bigliettini ci avrebbe esposto a situazioni pericolose. Seppi più tardi che Giuseppe aveva usato uno stratagemma diverso dal mio e questo aveva sviato le indagini del padre spirituale. Lui aveva rubato il disegno di una donna nuda fatto da un altro compagno e lo aveva nascosto deliberatamente tra le pagine del suo vocabolario di latino, il foglio era irregolare ed era appoggiato alla rilegatura in due soli punti, ma lui, poi, aveva trovato quello stesso foglio messo in modo diverso, segno che qualcuno aveva sfogliato il suo vocabolario e, avendo trovato il foglio, non lo aveva preso ma lo aveva lasciato lì. Siccome gli armadietti dei libri e dei quaderni scolastici erano nell’aula dove si faceva lezione, la probabilità che fosse stato un compagno di scuola era praticamente nulla.

Avevo notato che il padre spirituale, quando incontrava Giuseppe gli diceva: “Dì tre Ave Marie alla Madonna…” Seppi solo dopo che Giuseppe aveva finito per cedere alle pressioni del padre spirituale, che se lo immaginava come Adamo tentato da Eva, e gli aveva raccontato quello che il prete si aspettava. Alla fine Giuseppe era stato costretto a prendersi gioco dei sacramenti e ne ha sofferto parecchio. Ho provato a digli tante volte che sono vere colpe solo le decisioni “libere” che recano danno al prossimo, ma non era abbastanza laico per accettare questo punto di vista.

I veri momenti di contatto con Giuseppe erano nelle vacanze. Nelle vacanze di Natale e di Pasqua si poteva uscire insieme ed erano giornate esaltanti, qualche volta si arrivava a toccarsi o a masturbarsi insieme. Allora non esisteva l’aids e per due ragazzi della nostra età le malattie veneree erano una realtà del tutto sconosciuta e impensabile. Né i miei genitori né quelli di Giuseppe hanno mai sospettato nulla, evidentemente la scuola cattolica era stata una buona palestra, ci aveva dato una buona educazione e ci aveva insegnato come “proteggerci dai pericoli che ci circondavano”.

Nelle vacanze estive tra il primo e il secondo liceo, tutti i nostri dubbi erano dissipati, avevamo 17 anni, ma sapevamo quello che volevamo, ormai ragionavamo con la nostra testa. Giuseppe andava d’accordo coi genitori ma non si sognava neppure di parlare apertamente con loro di sessualità, io con i miei avevo in pratica solo un rapporto formale, a loro andava bene così e io capivo giorno dopo giorno che solo con Giuseppe avrei potuto vivere la mia vita e che conciliare quello che provavo per Giuseppe con altre cose sarebbe stato impossibile. Tra l’altro sia io che lui eravamo stati fortunatissimi perché, senza internet e senza telefonini e con la paura di dichiararsi che c’era allora, la probabilità di trovare un altro ragazzo gay serio era quasi zero.

L’ultimo anno, ormai, non avevamo più paura di niente e di nessuno. Dovevamo studiare perché allora la maturità era terribile ma ci siamo anche divertiti, dopo le vacanze di Natale abbiamo introdotto in collegio le novelle di Boccaccio in edizione integrale “per approfondire gli studi!” E il libro ci è stato sequestrato ma non abbiamo avuto una segnalazione disciplinare per non sollevare polvere. Ma la cosa più bella è stata quando abbiamo messo nell’armadietto dei due nostri compagni “che facevano la spia” due copie del Capitale di Marx. Lì veramente si è visto che da un giorno all’altro è cominciata la caccia alla mela marcia, o sarebbe meglio dire la caccia alle streghe, ma i preti non sono arrivati a capire chi avesse introdotto quei libri e la faccenda è stata insabbiata.

Presa faticosamente (molto faticosamente) la maturità si è posto il problema della scelta della facoltà, scelta che i nostri genitori ritenevano fondamentale, mentre per noi l’unica scelta fondamentale era rimanere insieme. Mio padre mi avrebbe voluto medico, il padre di Giuseppe lo avrebbe voluto avvocato, come lui, alla fine decidemmo entrambi di studiare ingegneria e fu una scelta libera e quanto mai opportuna.

Ora siamo entrambi vecchi, over 70, la salute è un po’ incerta ma regge ancora passabilmente. Abbiamo uno studio di ingegneria bene avviato, dove nessuno sa di noi. Eravamo entrambi figli unici. I nostri genitori sono stati sempre all’oscuro di tutto. Viviamo in due villette singole confinanti un po’ fuori città, abbiamo aperto una porta nella recinzione che ci divide, ovviamente viviamo insieme da un po’, in pratica da quando siamo rimasti entrambi senza genitori 14 anni fa.

Abbiamo in comune una badante (o una signora tutto fare), un po’ una specie di tata per vecchi. Credo che lei abbia capito come stanno le cose ma non si è mai fatta problemi e non ha mai fatto chiacchiere. Abbiamo un cane, “pof”, che è in pratica di tutti e due.

Adesso siamo liberi, 60 anni fa non avremmo mai immaginato un futuro così. Sono grato alla scuola cattolica perché, per quanto possa sembrare paradossale ci ha indotto a ragionare con la nostra testa. Credimi, Project, ai nostri tempi e nelle nostre condizioni era molto difficile. Se lo credi opportuno puoi mettere questa mail nel forum.

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Risposta di Project: Grazie per la tua mail, siamo più o meno coetanei, ma io ho frequentato un liceo statale, era anche quello un ambiente chiuso ma ci si respirava un’aria molto diversa e non c’erano tentativi istituzionalizzati di educazione ideologica, anche nella mia scuola c’era una penetrazione insinuante di organizzazioni cattoliche, ma il fatto che la scuola non fosse parte di un collegio ma fosse una scuola statale dove si sta solo per le ore di lezione del mattino, consentiva comunque forme di relativo pluralismo. Uno poteva anche in una scuola statale finire invischiato in organizzazioni di lavaggio del cervello come quelle di cui parli tu, ma aveva anche la possibilità di uscirne, se voleva, e poi va aggiunta una considerazione, il collegio di cui parli aveva due caratteristiche, una era l’essere cattolico e l’altra era di essere un ambiente sociale di élite, quindi molto selettivo, ed è un’accoppiata terribile.

La tua storia mi ha ricordato, per certe atmosfere, il romanzo di Roger Peyrefitte “Les amitiés particulières”, ma il romanzo di Peyrefitte è stato pubblicato nel 1943 e si riferisce ad epoche ben anteriori agli anni ’60 del secolo scorso, gli epiloghi del libro di Peyrefitte sono tragici perché la pervasività e la violenza di quello che ritrae erano oggettivamente estreme. La storia che racconti tu è degli anni ’60 e il clima era già cambiato. Devo aggiungere che leggendo la tua mail ho avuto il timore di trovare una conclusione analoga a quella del romanzo di Peyrefitte ma per fortuna non è stato così. Dopo la fine della guerra il mondo è oggettivamente cambiato, almeno in Europa, e l’happy ending della tua storia ne è un chiaro segno. Grazie ancora per il tuo contributo.

Aggiungo un’altra considerazione: è veramente terribile vedere come il Vangelo possa essere strumentalizzato e la storia della chiesa ne mostra esempi infiniti, alcuni ben più terribili di quelli cui fai riferimento.

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Risposta di Lao: Ho letto questa storia con molto interesse, ma il periodo dai 20 ai 70 anni è stato narrato in maniera troppo sbrigativa (per quanto il titolo del thread sia chiaro, avrei voluto saperne di più). Repressione e ipocrisia devono aver contrassegnato le istituzioni educative a carattere religioso di quel periodo.

Ormai questi due uomini hanno oltre 70 anni, sono presumibilmente soli e non hanno più bisogno di lavorare, perciò non hanno niente da “temere” dalla badante o da chi per lei. Se gli altri capiscono, se ne faranno una ragione. Sono contento che l’autore della mail e Giuseppe abbiano trascorso e stiano trascorrendo la vita insieme.

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Caro Project,
intanto grazie per la tua risposta.
Rispondo all’osservazione di Lao.

Ho preso la maturità nel 1967, prima della riforma Sullo, per capirci quella che ha introdotto l’esame con solo due scritti e due orali, quindi ho fatto gli esami come erano previsti dalla riforma Gentile, con tutte le prove scritte, con gli orali di tutte le materie e con la sessione di riparazione (a settembre) per quelli che non avevano ottenuto in prima sessione la sufficienza in tutte le materie, l’esame all’epoca era veramente un incubo.

All’epoca circa il 30% degli studenti veniva bocciato alla maturità. In questo senso, avere frequentato il liceo in una scuola come quella dove ho studiato io era una garanzia non da poco, perché si trattava di una scuola rispettata e temuta dalle stesse commissioni d’esame.

Sia io che Giuseppe abbiamo corso seriamente il rischio, se non di essere bocciati, almeno di essere rimandati a settembre, cosa che allora capitava a circa il 50% degli studenti e noi ce la siamo cavata, io penso, essenzialmente perché il commissario di Italiano, che non era certamente di ispirazione cattolica ha chiesto a Giuseppe l’XI canto del Paradiso, quello di San Francesco, e a me ha chiesto addirittura Carducci. Giuseppe ha capito che il professore della commissione aveva una mentalità aperta e ha parlato di Bonifacio VIII, della corruzione ecclesiastica e della repressione dei movimenti pauperistici, tutte cose che noi avevamo studiato per conto nostro sull’enciclopedia Treccani, che era in libera consultazione nella biblioteca dell’istituto perché si riteneva che nessuno l’avrebbe letta.

Io invece mi feci portare dall’entusiasmo parlando dell’Inno a Satana, mentre il commissario interno, padre [omissis] mi guardava con occhi di fuoco come fossi il demonio incarnato. Il commissario di Italiano mi disse che aveva apprezzato il mio tema su Carlo Cattaneo. Sono andato a ritrovare il brano di Cattaneo che commentai nel mio scritto di maturità, ne ricopio qui un tratto, che è quello che mi entusiasmò: “Oggi vogliamo nella letteratura la scienza, non nel senso didattico ma nel senso dell’erudizione vasta, profonda, nel senso della solidarietà delle nazioni, nel senso umanitario, nel senso della libertà.” Io, che ero abituato a leggere solo Manzoni, mi ritrovavo in una visione del mondo che era molto più mia, quella parola “libertà” mi inebriava.

Anche Giuseppe fece il tema su Cattaneo ma si dedicò a commentare un altro brano di Cattaneo: “La letteratura, che ai nostri giorni si è tutta data al servizio della civiltà, non può più essere, come in antico, coltivata nell’isolamento; ci ridiamo ora di letterati anacoreti, alziamo sdegnosi le spalle sulle loro meditazioni egoistiche dalle quali traspira sì profonda ignoranza del mondo e delle cose, erudizione sì limitata, limitata spesso al circuito della propria città o tutt’al più della propria nazione, e che mostrano di ispirarsi a idoli da gran tempo abbattuti, a tradizioni scolastiche retoriche o prettamente classiche.” Quello che diceva Cattaneo era proprio la demolizione della cultura che ci era stata proposta, ma dovrei dire imposta, come modello.

Io e Giuseppe fummo gli unici due candidati a svolgere il tema su Cattaneo e penso che sia stato proprio questo a salvarci dal rinvio a settembre se non proprio dalla bocciatura. Con enorme scorno del nostro membro interno, padre [omissis], prendemmo entrambi otto allo scritto e otto all’orale di Italiano e ci guadagnammo anche la stima del commissario esterno di Matematica. L’esperienza degli esami mi diede per la prima volta la precisa sensazione di quanto avessi perduto nel non frequentare un liceo pubblico. Nelle altre materie prendemmo tutti sei, perché di materie scientifiche sapevamo poco o nulla e i commissari di Latino e Greco e di Storia e Filosofia erano affascinati dalla tradizione e dal nome della mia scuola. Quando la commissione andò via, il commissario di Italiano ci diede la mano e lo fece solo con noi due.

Finiti gli esami ci restava l’enorme problema di fare digerire ai nostri genitori che avremmo fatto le nostre scelte relative alla facoltà universitaria esclusivamente sulla base dei nostri criteri. Mio padre dava per scontato che io avrei seguito pedissequamente i suoi “consigli”, i genitori di Giuseppe gli avrebbero lasciato una maggiore libertà di scelta, ma comunque relativamente ad una rosa di scelte molto limitata e in ogni caso avrebbero dato per scontato che Giuseppe frequentasse l’università a Milano, ma noi avevamo in mente altri progetti, volevamo andarcene il più presto possibile da Milano per avere una nostra autonomia vera e avevamo già fatto le nostre scelte, volevamo iscriverci a Ingegneria e a Roma, non a Milano, ma fare accettare un progetto del genere ai nostri genitori e per di più sviando la loro attenzione dal fatto che una scelta simile, fatta in due, potesse nascondere motivazioni che nulla avevano a che fare con gli studi, era un’impresa degna di Agamennone.

Dovevamo trovare una strada per arrivare al risultato e dovevamo trovarla presto. I nostri genitori cominciavano a proporci compagnie femminili ben selezionate, cioè del livello sociale ed economico adatto. Provenendo da un collegio tutto maschile si dava per scontato che noi non avessimo amicizie femminili ma si dava altrettanto per scontato che noi fossimo desiderosi di averne, cosa mille miglia lontana dalla realtà.

La famiglia di Giuseppe aveva individuato per lui una ragazza “adatta” e questa idea cominciava a mettere Giuseppe di cattivo umore, ma la ragazza, che aveva fatto anche lei la maturità, si volle iscrivere all’accademia nazionale di danza a Roma, questo fatto per un verso facilitò la situazione di Giuseppe a Milano e per l’altro avrebbe potuto interferire coi nostri piani di andare a Roma, ma c’era il fatto che l’ipotetica relazione tra quella ragazza e Giuseppe era sono nelle fantasie dei genitori di Giuseppe, perché con ogni probabilità la ragazza aveva in mente progetti completamente diversi.

Poiché il tempo era poco, decidemmo innanzitutto di agire separatamente, in modo da non fare pensare ad un progetto premeditato in due. Avremmo cominciato dallo sparare molto alto, cioè dal proporre qualcosa che per i nostri genitori non fosse accettabile da nessun punto di vista. Una sera mentre i miei genitori stavano vedendo la televisione ho detto loro quali progetti avevo per il futuro: volevo lavorare per essere economicamente indipendente e avevo già mandato 10 domande di lavoro a Roma.

Avevo fatto le copie da mostrare ai miei genitori, ma ovviamente non avevo mandato le domande. I miei rimasero di sasso e mi chiesero il perché di una decisione del genere, ma io dissi che all’università c’erano anche i corsi serali per lavoratori-studenti, cosa allora non vera, anche se i miei non lo sapevano, ma che si verificò qualche anno dopo, e dissi che avrei lavorato e studiato. In realtà la cosa era più complicata di come può sembrare oggi, perché allora si diventava maggiorenni a 21 anni e io sarei rimasto comunque per altri tre anni a dipendere in tutto dai miei genitori, anche se avessi lavorato.

Mi chiesero che facoltà volevo fare e io dissi che volevo fare ingegneria, ovviamente cercarono di sconsigliarmi in tutti i modi ma io ero deciso nelle mie scelte. Alcuni figli di loro amici avevano fatto ingegneria e la cosa, al limite, non sembrava a loro così scandalosa, ma che io dovessi lavorare “come un morto di fame” non lo accettavano proprio. Fu la prima volta che vidi i miei genitori preoccupati, non di me, ma del disdoro sociale che poteva derivare loro dall’avere un figlio che lavora come “un morto di fame”.

Ormai il dado era tratto! Dopo un paio di giorni di indecisione dissi che mi avevano chiamato a lavorare a Roma a fare il bigliettaio serale in un cinema. Mio padre mi guardò schifato, come se io fossi uscito di cervello e mi avessero chiamato a fare il tenutario di una casa di tolleranza, ma non disse nulla, io ero terrorizzato che i miei decidessero di non intervenire.

Comparai un biglietto del treno per Roma e lo poggiai sul comodino, il giorno dopo mia madre venne per cercare di farmi rinsavire, ma io mi misi a fare la valigia sperando che la loro resistenza cedesse. La sera mio padre venne a Canossa e mi propose di pagarmi una casetta vicino all’università perché altrimenti, come lavoratore-studente non mi sarei mai laureato. Io accettai e dissi che dovevo comunque andare a Roma per comunicare subito a quelli del cinema che non sarei andato e che cercassero un altro e anche per cercarmi un appartamentino.

L’indomani mattina alle 5.30 esco da casa e vado in stazione con una valigetta. Sono d’accordo coi miei che starò via da casa tre giorni completi e dormirò in albergo per due notti. Giuseppe sale a Rogoredo e facciamo tutto il viaggio insieme. Lui con i suoi non ha avuto bisogno di ricorrere a trucchi di nessun genere. Il padre gli ha detto che doveva fare quello che credeva meglio e che lo avrebbero appoggiato economicamente comunque.

All’epoca, a quanto sapevo, i miei genitori e quelli di Giuseppe non si conoscevano affatto, i miei genitori conoscevano Giuseppe ma non i suoi genitori, quindi avremmo potuto prendere benissimo due appartamentini vicinissimi, ma la cosa era da valutare in concreto a Roma. Fu un viaggio lungo e stancante ma “nostro”, finalmente liberi!

Il treno era affollatissimo ma noi stavamo veleggiando verso la nostra libertà. Arriviamo a Roma Termini nel pomeriggio e fa un caldo tremendo, proprio da schiattare. Andiamo subito in albergo e ci prendiamo “due stanze singole”, in modo da avere due ricevute singole, depositiamo i bagagli e ci riposiamo un po’, poi vediamo la strada da fare per andare in zona università, ma è vicino alla stazione e ci si può andare benissimo a piedi.

Andiamo a farci un giro, compriamo un giornale di Roma, con gli annunci economici. Oggi sui giornali queste cose non ci sono più, perché sono tutte su internet, ma allora c’erano pagine intere di annunci di ogni tipo e ovviamente anche di case in affitto. Passiamo la serata a selezionare annunci con la pianta di Roma sotto mano e ne troviamo due che potrebbero andare bene. L’indomani mattina andiamo all’università a prendere l’ordine degli studi della facoltà di ingegneria, andiamo a vedere dove si tengono le lezioni e poi andiamo a vedere i due appartamenti, il primo è impresentabile e il padrone di casa non ci convince affatto, vuole fare tutto aumma aumma, cioè senza contratto, ecc. ecc..

Il secondo sarebbe una soluzione possibile, costa di più ma ha due stanze e sembra una cosa seria, si potrebbe benissimo prendere insieme, per noi andrebbe benissimo ma non sappiamo come fare accettare una cosa del genere ai nostri genitori perché risulterebbe sospetta. Lasciamo la cosa in sospeso, passiamo il pomeriggio cercando altri giornali con annunci di affitti, nel pomeriggio ne vediamo altri tre.

Troviamo una soluzione che ci sembra possibile: due appartamenti piccolissimi abbastanza vicini tra loro e che avevano entrambi il telefono, cosa fondamentale, perché al tempo non era affatto scontato che ci fosse il telefono in un appartamento per studenti. Gli appartamenti erano però un po’ più lontani da dove si faceva lezione rispetto a quelli che avevamo visto il giorno prima. La mattina del terzo giorno andiamo a vedere e la soluzione sembra tutto sommato accettabile. Paghiamo un anticipo per fissare gli appartamenti, anzi, due anticipi separati, e ci facciamo fare le ricevute. I padroni di casa sembrano abituati ad affittare appartamenti agli studenti.

Riprendiamo il treno per Milano. Giuseppe scende a Rogoredo, e cambia treno per non arrivare col mio, di questo si sarebbe potuto fare a meno ma ci sembrò necessario usare la massima prudenza. A casa spiegai ai miei quello che avevo fatto e stranamente non fecero troppe storie, perché il fatto stesso di pagare l’appartamento sembrava loro una forma di partecipazione più che sufficiente alla mia vita. Le lezioni cominciavano il 5 Novembre.

Entrammo in casa il 1° Novembre. Nei primissimi tempi io ebbi qualche problema col padrone di casa che aveva visto spesso Giuseppe uscire da casa mia e temeva che Giuseppe fosse di fatto un subaffittuario, quando vide che Giuseppe aveva preso ufficialmente il domicilio in un’altra casa sempre a Roma e che io pagavo regolarmente l’affitto, il padrone di casa non fece più storie e di fatto Giuseppe venne a vivere a casa mia, che era un po’ più vicina all’università.

I primissimi di novembre ci siamo procurati i libri necessari per gli esami e abbiamo cominciato a sfogliarli e lì è arrivato il primo trauma inatteso. Leggevamo e non capivamo quasi niente. Ci rendemmo conto che il nostro livello di conoscenza delle discipline scientifiche era pressoché nullo e, devo ammetterlo, ci prese il panico. Nel frattempo erano cominciate le lezioni che dopo i primissimi giorni cominciavano ad essere incomprensibili.

A lezione c’era una marea di gente e parecchi si comportavano come deficienti, dicevano stupidaggini per fare ridere gli altri, si lanciavano i cartoccetti con l’elastichetto, mentre i professori continuavano imperturbabili a scrivere lavagnate di formule via via sempre più incomprensibili. Andavamo a lezione ogni giorno ma perdevamo terreno ogni giorno. Capimmo che se non avessimo studiato dalla mattina alla sera non avremmo cavato un ragno da un buco. Avevamo ridotto al minimo i tempi da sottrarre allo studio, andavamo a lezione tutta la mattina, mangiavamo un panino e ci rimettevamo subito a studiare e a fare esercizi. Arrivavamo alla sera tardi con le lacrime della disperazione.

Non tornammo a Milano durante le vacanze di Natale e rimanemmo a Roma a studiare alla disperata e fu proprio allora che cominciammo a recuperare un po’ del terreno perduto. Quando cominciammo a capire qualcosa della geometria della retta e del piano nello spazio mi si aprì il cervello, cominciai a capire la logica generale della Geometria analitica. L’Analisi era trattata in modo molto astratto e teorico, ma passando dai limiti alle derivate qualcosa si cominciava a capire anche a livello intuitivo, la Fisica e la Chimica sembravano più comprensibili nella teoria ma fare i problemi ci sembrava ancora molto difficile.

Un problema a parte e quasi insormontabile era il cosiddetto Disegno civile. I nostri colleghi che venivano da altri tipi di studi facevano cose splendide senza nessuno sforzo, noi faticavamo anche con le cose più elementari e i nostri disegni erano assolute porcherie. Assonometrie e prospettive all’inizio erano per me oltre il limite del possibile. Mi sentivo proprio un incapace. Dopo Natale le aule si erano svuotate, c’era un quarto degli studenti rispetto ai primi giorni di Novembre, chi era capitato lì per sbaglio capiva che non era aria per lui e cambiava facoltà.

Andammo a sentire una sessione di esami e restammo terrorizzati, i promossi erano pochissimi e molti ripetevano l’esame più di una volta. A febbraio ci sembrò di cominciare a capire e a seguire le materie, ma gli esami erano quasi tutti su argomenti che non conoscevamo per niente e che non avevamo ancora trattato: dalle quadriche alla termodinamica, dalla chimica-fisica al calcolo combinatorio. Eravamo veramente in crisi, studiavamo da matti ma non vedevamo luce in fondo al tunnel. All’inizio di marzo eravamo finalmente in grado di seguire “alla grossa” le lezioni, studiando da matti fino a notte alta.

Gli esercizi cominciavano a venire e cominciavamo a capire la bellezza delle materie scientifiche in cui una cosa o è giusta o è sbagliata e i procedimenti hanno delle motivazioni razionali indiscutibili. Non tornammo a Milano nemmeno per Pasqua, pensavamo solo a studiare. In quel periodo il sesso tra noi era solo la medicina della disperazione e in pratica l’ultimo dei nostri pensieri, anche perché stavamo comunque insieme 24 ore su 24 e condividevamo praticamente tutti gli aspetti della vita. Il rapporto con gli altri studenti era ridotto ai minimi termini perché in pratica era un “si salvi chi può”. I professori erano personaggi mitici che vedevi da lontano salvo il momento da infarto degli esami.

Praticamente tutti gli esami avevano scritto e orale e la grande maggioranza della scrematura si faceva allo scritto. Allo scritto potevi portarti i libri che volevi, e il regolo calcolatore, una cosa che oggi è un oggetto da museo ma allora era praticamente l’unico mezzo di calcolo possibile, perché i calcolatori elettronici portatili non esistevano proprio e comunque il regolo, era l’unica alternativa concreta alle tavole dei logaritmi. Oggi ci sono le calcolatrici programmabili e ce ne sono di mostruose, allora non c’era niente di tutto questo e una parte molto grossa delle difficoltà dei problemi di fisica o di chimica era rappresentata dal calcolo numerico. Qualcuno si portava appresso le tavole dei logaritmi a sette decimali per fare calcoli più precisi, ma in realtà in quel modo il rischio degli errori di calcolo aumentava a dismisura.

I professori correggevano gli esercizi in due fasi: prima guardavano il risultato numerico, se quello era giusto, almeno approssimativamente, guardavano il procedimento e un errore di calcolo portava a calcolare come zero il punteggio di quell’esercizio. Sbagliare i calcoli era micidiale. Noi eravamo andati a cercare e a mettere insieme i testi delle prove scritte di Analisi, di Fisica e di Chimica ed avevamo preso appunti delle domande ricorrenti agli orali anche di Geometria. I corsi finivano ai primi di Giugno e a Giugno non avevamo alcuna probabilità concreta di superare nessuno degli esami previsti.

Non tornammo a Milano nemmeno d’estate perché dovevamo arrivare a fare gli esami, o almeno tre esami entro settembre, altrimenti tutto il nostro progetto sarebbe naufragato miseramente e saremmo dovuti tornare a casa nel compatimento generale. Andammo a seguire tutti gli esami della sessione estiva, di tutte le materie che avremmo dovuto fare noi. Prendevamo appunti, poi tornavamo a casa e studiavamo gli argomenti cercando di capire che cosa volessero i professori e lì mi sono accorto che di tanti argomenti che pensavo di conoscere non avevo capito assolutamente nulla. Le quadriche e la termodinamica restavano un vero mistero, avevo imparato a pappagallo tante definizioni ma me ne sfuggiva proprio il significato.

Seguendo gli esami, però, cominciammo a capire il senso delle funzioni di stato e dei processi quasi-statici e quando intuimmo il senso fisico-matematico del ciclo di Carnot ci si aprì un mondo. Decidemmo di puntare tutto su tre esami: Geometria, Analisi e Fisica e di lasciare per Novembre o per febbraio addirittura, Chimica e Disegno civile. Ai primi di luglio gli esercizi cominciavano a tornare e avevamo imparato ad usare con sicurezza il regolo, a metà di luglio avevamo finito il primo ripasso delle tre materie e cominciammo a confrontarci con le prove scritte di esame.

Le facevamo insieme, nel tempo stabilito di due ore, come se fossimo all’esame, poi ce le correggevamo a vicenda guardando le soluzioni pubblicate dopo le prove scritte e ci assegnavamo un punteggio coi criteri adottati dai professori. Ricordo che alla prima esercitazione su una vera prova di Geometria, io presi 11/30 e Giuseppe 12/30, sembrava pochissimo, ma noi solo due mesi prima saremmo stati a zero. Le cose andavano un po’ meglio con Analisi (22/30 e 21/30) e Fisica (19/30 e 18/30) perché i libri e le raccolte di esercizi svolti erano fatti molto meglio. A fine di luglio avevamo portato il risultato di Geometria intorno a 20 e quelli di Fisica e di Analisi intorno a 23.

Nei 40 giorni successivi, che precedevano le prove d’esame, procedemmo a marce forzate. Arrivammo alla vigilia degli esami con risultati medi sempre al di sopra di 20, che può sembrare poco ma significa già conoscere passabilmente le materie. Decidemmo di tentare, se avessimo preso meno di 24 avremmo rifiutato il voto e ci saremmo presentati alla sessione successiva. Arrivò il giorno dell’esame di Analisi, l’ansia era fortissima, entrammo, i candidati furono distribuiti in un’aula enorme. I testi delle prove erano diversi (A,B,C,D) ed erano assegnati per sorteggio, a me e a Giuseppe capitarono prove diverse.

Finite le due ore uscimmo con alcuni dubbi non risolti e con le brutte copie delle prove, tornammo a casa e ci correggemmo reciprocamente le prove seguendo passo passo il procedimento, io prevedevo di avere preso 22 e lui si aspettava 21, entrambi avevamo fatto errori di calcolo algebrico banale nonostante il procedimento giusto. Ci guardammo sconsolati. Due giorni dopo uscirono i risultati dello scritto, erano stati ammessi agli orali solo in otto, uno solo con 30, due con 27, Giuseppe aveva avuto 24 e io addirittura 26, gli altri erano tutti sotto il 20, non ci sembrava vero.

Avevamo una settimana prima dell’orale. Cominciammo ad interrogarci a vicenda giorno e notte e a ripetere ossessivamente dimostrazioni e teoremi. Passammo entrambi l’esame con 27 e ci fu un solo ragazzo che uscì con 30. La felicità era totale. Quella sera ci concedemmo di fare l’amore, ma dall’indomani cominciò l’ossessione di Geometria che però durò solo una settimana. Allo scritto prendemmo entrambi 23, un voto che ci avrebbe dovuto portare a non presentarci all’orale, ma siccome il voto più alto allo scritto era stato 26 pensammo di presentarci lo stesso e uscimmo entrambi con 25, un voto che non ci sembrava un gran che, ma intanto l’esame era fatto.

Restava in sospeso la Fisica che aveva lo scritto “col calcolo numerico” che ci terrorizzava, l’esame era previsto per la metà di ottobre e c’era un minimo di tempo. Decidemmo di focalizzarci proprio sugli argomenti più difficili: termodinamica e onde. I nostri livelli nello scritto erano saliti intorno al 26 e questo ci incoraggiava. Andammo a fare le prove e uscimmo entrambi con un 22, ma il nostro 22 veniva dopo un solo 25 e un solo 23, decidemmo di giocarci il tutto per tutto e di andare all’orale. Mi chiesero “conservazione del momento angolare e legge delle aree”, “secondo principio della termodinamica” e “battimenti” a Giuseppe fecero fare esercizi scritti anche all’orale. Uscimmo entrambi con 26, ci rimanemmo male ma accettammo il voto.

In pratica eravamo partiti da zero ed avevamo una media di 26, che poteva sembrare poco solo se vista da fuori, per noi era una conquista, era la certificazione che si poteva andare avanti.

Per preparare l’esame di chimica avemmo più tempo, Giuseppe uscì con 27 e io con 28 e mi sembrò di toccare il cielo con un dito.

Ci restava l’incubo di Disegno civile, un esame che in genere serviva agli altri per alzare la media, ma per me fu esattamente il contrario, lì la prova era in pratica solo grafica e l’orale era una discussione dello scritto. Giuseppe passò con 25, io avevo fatto veramente una tavola che era una porcheria. Il professore mi chiama e mi fa un gesto per farmi capire che la prova era indecente, e mi scrive su un foglietto un 23, ma non lo scrive sulla tavola, cioè non lo scrive come voto definitivo, io parto a raffica spiegando tutti gli errori che avevo fatto, dopo qualche minuto gira il foglietto e scrive 24 e lo sottolinea due volte al che io faccio cenno di sì. Quando sono uscito non mi sembrava vero.

Il 5 Novembre alla ripresa delle lezioni avevamo superato TUTTI gli esami previsti e potevamo dedicarci alle materie del secondo anno. Mi piacque moltissimo l’esame di Meccanica razionale, molto meno Analisi due con gli integrali multipli, i momenti di inerzia e le equazioni differenziali, mentre fui affascinato dall’elettromagnetismo, ma ormai le cose procedevano regolarmente, la media dei voti saliva. Il triennio poi era già più specializzato ma fino a un certo punto.

Mi incantava la Scienza delle costruzioni, molto meno la Meccanica applicata. L’elettrotecnica mi sembrò una vera scoperta, tanto che rimpiansi di avere scelto ingegneria civile. Con i colleghi del triennio il clima era diverso, eravamo numericamente pochi rispetto al biennio, c’era un minimo di collaborazione e hanno anche cercato di inserirci nel gruppo ma ci siamo tenuti sempre fuori dai gruppi di qualsiasi genere.

Il momento di svolta del nostro corso di studi fu l’esame di analisi numerica “con elementi di programmazione” che all’epoca era considerato solo un ulteriore esame di matematica perché l’informatica era veramente ridotta ai minimi termini. Ci si aprì davanti un mondo nuovo, capimmo che il calcolo elettronico non aveva niente a che vedere coi calcoli fatti col regolo e che cambiavano proprio le regole del gioco.

Parlammo col professore che ci prese sul serio, ci diede da sviluppare dei programmi in Fortan e in Algol, allora il Pascal non c’era ancora e la cosa aveva per noi il fascino della scoperta. I nostri programmi di calcolo erano evoluti e piacquero al professore che ci permise di accedere al laboratorio di calcolo, una cosa allora praticamente impossibile per uno studente. Fummo spinti automaticamente a uno studio matematico dell’analisi numerica di livello nettamente più alto. Analisi numerica fu il primo esame in cui avemmo la lode, cosa che ci mandò in orbita.

Mantenemmo i contatti col professore di analisi numerica e quando nel 1970 uscì il Pascal cominciammo a lavorare su programmi di calcolo delle strutture, sono cose che paragonate con quello che fanno i PC di oggi sono di una elementarità disarmante, ma all’epoca erano novità sconvolgenti, soprattutto perché evitavano il problema degli errori di calcolo.

Ci siamo laureati con la lode a Novembre 1972 con due tesi coordinate su: “Programmi di calcolo di strutture reticolari complesse linearizzabili”. Purtroppo, a causa dei rinvii della sessione di laurea non riuscimmo a fare l’esame di abilitazione in seconda sessione 1972 ma a Giugno del 1973, a 25 anni, avevamo preso l’abilitazione ed eravamo finalmente ingegneri.

Devo sottolineare che le nostre famiglie non sapevano nulla della nostra vera storia, non sapevano che avevamo vissuto insieme per anni e che ci eravamo laureati lo stesso giorno praticamente trattando gli stessi argomenti. Ora i nostri genitori si aspettavano che noi tornassimo a Milano per trovare qualche posto prestigioso, magari tramite qualche loro amico, ma noi avevamo idee abbastanza precise, volevamo aprire uno studio di ingegneria civile “avanzato” cioè basato sull’uso dei calcolatori. Oggi questa cosa sembra una assoluta ovvietà, ma 50 anni fa non lo era affatto.

Per fare una cosa minimamente dignitosa avremmo avuto bisogno di soldi, almeno per prendere un appartamento da usare come sede dello studio e per poter assumere un paio di collaboratori, essenzialmente un informatico molto aggiornato e una segretaria amministrativa capace di gestire le questioni fiscali. Per quanto riguardava i problemi dei brevetti avremmo cercato di fare da noi o al massimo di ricorrere (il meno possibile) a consulenti esterni, ma per partire ci voleva un capitale non indifferente.

Non ci facemmo portare nel mondo dei sogni e stabilimmo un principio: “mai fare il passo più lungo della gamba!” I nostri genitori si erano offerti di darci una mano economicamente ma avrebbero voluto che tornassimo a Milano, cose che noi non volevamo fare assolutamente, facemmo quindi una scelta che fu aspramente criticata: facemmo domanda di supplenza per insegnare negli istituti tecnici, e allora avere le supplenze era facile perché i laureati in materie tecniche erano pochi.

Abbiamo insegnato per tre anni negli Istituti tecnici e abbiamo messo da parte tutto quello che abbiamo potuto, non eravamo comunque in grado neppure di pagare un anticipo per acquistare un appartamento per lo studio e così decidemmo di prenderne uno in affitto e di tentare di farci imprenditori di noi stessi.

Prendemmo un appartamento di tre stanze in mezza periferia ma piuttosto ben messo e ci decidemmo a fare una spesa folle per noi all’epoca, comprammo un computer Olivetti P6060 che costava una cifra enorme, oltre 8.000 dollari, al cambio di allora quasi cinque milioni e mezzo di lire, come insegnanti noi guadagnavamo meno di 250.000 lire al mese, il che vuol dire che il computer ci costò, comprese le tasse, circa 25 mensilità di stipendio. Il computer era da ufficio, ma era pesantissimo (oltre 40 kg) e mastodontico, il che però dava al nostro ufficio un aspetto assolutamente unico e supertecnologico.

Appena attivato il P6060 ci siamo messi a lavorarci sopra e nel tempo di un mese abbiamo sviluppato i primi software, innanzitutto quelli della contabilità di ufficio, che era tutta conservata su grossi soft-disk 20×20, poi ci siamo messi a lavorare sulla progettazione di strutture reticolari in acciaio e noi avevamo la possibilità di fare calcoli mostruosamente complessi per l’epoca e senza rischio di errori, in pratica potevamo stampare e consegnare in un giorno la progettazione di una struttura reticolare complessa che agli altri richiedeva almeno 15 giorni e certamente era assai meno precisa.

Purtroppo non c’era modo per disegnare tramite computer come si fa adesso col CAD e quindi ci voleva comunque un disegnatore meccanico che fosse in grado di eseguire le tavole presto e bene. Ci rivolgemmo ad un nostro alunno molto bravo (Martin) che venne a lavorare per noi, gli demmo un tecnigrafo di ultima generazione, uno strumento che oggi è un oggetto da museo.

Il lavoro cominciava ad arrivare, noi non ci preoccupavamo di seguire i lavori in cantiere ma solo della progettazione e dedicavamo tutto il tempo libero alla progettazione del software. In pochi anni fummo in grado di comprare un appartamento più grande per lo studio, oltre Martin assumemmo anche la sua ragazza, che si chiamava Martina (combinazione più unica che rara).

Poi ci allargammo ancora e assumemmo uno dei primi informatici professionalmente formati, soprattutto per scegliere computer che fossero all’avanguardia perché in quegli anni l’evoluzione era rapidissima. Smettemmo dopo qualche anno di usare software autoprodotto e cominciammo a padroneggiare software commerciali specializzati e abbiamo continuato su questa strada fino ad ora.

Con gli anni ci siamo comprati due case per noi, in ciascuna delle case c’è una stanza singola e una stanza matrimoniale, come se fossero case destinate a ospitare famiglie tradizionali. Non abbiamo mai invitato persone estranee a casa nostra, quelle rarissime volte che i nostri genitori venivano a Roma, la stanza matrimoniale, in teoria quella degli ospiti, era per loro. Oggi i nostri genitori non ci sono più e non abbiamo fratelli, dobbiamo pensare solo a noi stessi e alla vecchiaia che avanza grandi passi, finché la salute ci assiste stiamo bene così!
Prego Project, se lo crede opportuno, di aggiungere questa mail alla nostra precedente. Grazie!

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Se volete, potete partecipare alla discussione di questo post aperta sul Forum di Progetto Gay (sul Forum la discussione ha conservato il titolo iniziale):

http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=16&t=6982

GAY E MORALE SESSUALE

Ciao Project!
Dai, non ti dico le solite cose, se questa mail la mando a te vuol dire che mi aspetto una risposta e penso che ci sarà. Ho 33 anni, mi piace progetto, ma mi sento molto, o almeno abbastanza diverso dai ragazzi di progetto, nel senso che sono molo più libero, penso almeno, poi non lo so, però in pratica, diciamo dai vent’anni in poi, ho avuto tante esperienze, proprio di tutti i generi, che nemmeno te le puoi immaginare, tranne che con le ragazze che per me non esistono proprio, ma diciamo che in campo gay le ho passate proprio tutte, dai coetanei agli uomini molto più grandi di me, sono stato spessissimo sulle chat erotiche gay più famose e ho giocato molto con quelle famose ap. Ho beccato tanti due di picche, frustrazioni, certe volte vere disperazioni vedendo ragazzi di cui ero innamorato che non erano coinvolti da me. All’inizio ho tenuto anche comportamenti a rischio quasi per fare una roulette russa con la morte, poi mi è capitato di venire a sapere che uno di quelli coi quali avevo fatto sesso non protetto era positivo e ho vissuto momenti di angoscia profonda e ho capito quanto un comportamento di sfida come il mio fosse da perfetto imbecille e così ho cominciato a fare sesso sempre in modo protetto. La paura fa rinsavire più dei discorsi e delle prediche che non ho mai sopportato. Oltre che a fare SEMPRE sesso protetto, ho imparato anche altre cose: prima di tutto che le persone le puoi valutare solo dai comportamenti e non dalle parole. Quelli che chiacchierano troppo fin dal primo incontro e che usano parole grosse e lodi sperticate sono i più subdoli e i più falsi, perché mentono sapendo di mentire, ti dicono che sono innamorati e, dopo che sono andati a letto con te, spariscono e non li senti più. Io ho rimorchiato ragazzi dappertutto, specialmente quando stavo peggio, il sesso mi piace, ma ci vedevo anche altro, cioè la mia affettività, per quanto frustrata e in un certo senso patologica, esisteva, e per questo ci stavo male quando le cose non funzionavano, ma ho trovato spesso, specialmente tra quelli over 40 e peggio ancora over 50 una totale anaffettività. Per loro andare a caccia di ragazzi era una specie di collezionismo ad affettività zero, ed erano anche uomini sposati. Però non è questione di età o di categorie perché ho trovato anche sessantenni che hanno fatto sesso con me ma in un altro modo, non da padrone ma da amico di buon senso, disposto a mettersi da parte, senza sparire, quando io mi innamoravo di un coetaneo. Tra coetanei c’è più competizione e con loro ho provato le peggio delusioni, nel senso che spesso vedono il sesso non come una cosa che si fa in due in privato, ma come una cosa da ostentare con gli amici, un po’ come succede agli etero che si vantano di avere rimorchiato una bella figa, tra gay è lo stesso. Io poi cerco un ragazzo per stare con lui, non per passare le serate coi suoi amici in locali di vario genere. Ho pochi amici e tra i miei amici ci sono in pratica tutti i miei ex che non sono spariti. Io non vado più a letto con questi ragazzi, o forse ci vado ancora qualche volta ma molto di rado, però con loro ho un rapporto, cioè siamo amici, ogni tanto ci sentiamo, cioè nella mia vita sono una presenza stabile. Adesso piano piano mi rendo conto che il sesso, per me, è un modo di esprimere un bisogno affettivo, se non c’è almeno un po’ di rispetto e un minimo di contatto affettivo io i ragazzi li caccio a pedate, è successo più volte. Una volta sono andato con uno che mi piaceva in un motel, ma lui ha cominciato a fare il deficiente in un modo così irritante che mi sono rivestito e me ne sono andato e lui pensava che io fossi innamorato di lui e voleva essere il padrone! Io in genere piaccio agli uomini, ma non a quelli che piacciono a me, questa frase penso di averla letta da qualche parte nel forum, ma direi che chiarisce bene quello che mi capita. Ormai sono talmente abituato al copione classico del seduttore gay che come ne vedo uno che comincia su quei toni lo mando sonoramente a quel paese. Mi piacciono a livello umano solo quelli che parlano chiaro. Se vuoi solo fare un po’ di sesso basta che lo dici prima, poi se mi va e se non c’è di meglio ci posso pure stare ma senza illudermi, cioè tanto per fare qualcosa. Non sopporto gli sbruffoni, quelli che si presentano con la bella macchina presa in prestito da qualche altro, quelli che ragionano in termini di portafoglio e si vogliono sentire padroni. Poi c’è una buona percentuale di fissati, di gente che sa dire solo parolacce e bestemmie ed è incapace di mettere tre parole di buon senso una appresso all’altra. Tu puoi capire che vuol dire andare a letto con uno così, e mi è successo, non lo mandi a quel paese solo perché ti fa pena. Insomma, Project, ne ho fatte proprio di tutti i colori. Mi è capitato perfino di fare sesso con un ragazzo in sedia a rotelle. Non pensavo che ci sarei riuscito, gli avevo detto prima che non ero innamorato di lui ma lui ha detto che lo sapeva ma che avrebbe voluto farlo lo stesso e lo abbiamo fatto, era un ragazzo molto intelligente, dopo mi ha detto che per lui era stata una cosa importantissima, un modo di essere accettato veramente. A distanza di tre anni siamo rimasti amici. Quello che non tollero è essere trattato come la puttana di turno. Tu vuol fare sesso con me, se a me sta bene, ok, altrimenti te ne vai, e poi certi uomini sposati vogliono fare sesso senza preservativo e io gli dico: Guarda che io voglio bene a tua moglie più di quanto gliene vuoi tu! E loro mi guardano strano e io gli dico: Perché io non metto a rischio tua moglie e nemmeno me stesso, ovviamente, io non sono stupido e senza preservativo non se ne parla proprio. Non sopporto gli uomini sposati che cercano i gay quasi per confessarsi dei tradimenti fatti alle mogli, perché hanno bisogno di qualcuno che li incoraggi a continuare a tradire la moglie e a tenere un piede in due scarpe. Uno l’ho proprio messo in crisi, gli ho detto: Se non te la senti di stare con tua moglie separatevi, ma non la imbrogliare, perché è proprio quello che stai facendo! Lui è stato malissimo e si è messo a piangere, probabilmente era il primo tradimento, e l’ho riaccompagnato a casa sua. Poi ci sono gli ipocriti che “dopo” che hanno fatto sesso con te, ti dicono che loro non volevano ma tu in un certo senso ce li hai portati in modo viscido e insinuante. Io dico: Ma, bello, nessuno ti ha costretto! La gente non vuole i rapporti di coppia, le cose di lunga durata con tanto di convivenza, no! Impegni non ne vuole nessuno. Sesso, ma senza altre cose, senza “altri impicci” come dicono loro. Ne ho conosciuto uno che si riteneva un maestro di sesso! Sì, hai capito bene, pensava di poter insegnare agli altri che cosa è il sesso, ma era una cosa da sbellicarsi dalla risate, io gli ponevo un sacco di problemi assurdi, fingendo di essermi innamorato di una ragazza, e lui mi diceva che lo aveva capito subito che ero bisex (io, MAI!!), gli davo spago e lui partiva coi paroloni, tutto in linguaggio da psicologo rifinito, ma non si rendeva nemmeno conto che lo stavo sfottendo. Poi gli ho detto di farmi vedere qualcosa di sessuale in concreto e lui ha cambiato subito discorso e ha cominciato a dire che era tardi e che doveva andare. A uno gli ho proprio spaccato la faccia, eravamo in un motel e lui voleva farmi fare una cosa che a me non andava affatto. Gli ho detto: No! Questo no! E lui prima ha cominciato a minacciarmi e già mi stavano girando le scatole, poi ha provato a costringermi con la forza, perché era più grosso di me. Io gli ho dato una ginocchiata violenta nei testicoli che deve avergli fatto malissimo e lo avrei fatto nero ma non l’ho fatto perché mi è suonato il telefono, e allora l’ho piantato lì. Forse il più viscido di tutti è stato uno che si è avvicinato in una maniera subdola, io sospetto che fosse un prete, ma oggettivamente non lo so, certo non era uno di primo pelo nei siti di incontri. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare e lui faceva l’amico e io gli ho dato retta e gli ho presentato i miei amici. Lui a me diceva che era innamorato di me, poi uno dei miei ex mi chiede: Ma chi è quel tipo? Perché guarda che ci sta provando con tutti e dice che tu sei un povero stronzo che non capisce un cazzo. E allora la prima sera che siamo usciti con gli amici l’ho affrontato in modo diretto davanti a tutti e gli ho detto: Me è vero che ci provi con tutti? Lui pensava che fosse una cosa scherzosa, ma gli altri lo hanno sputtanato tutti alla grande! E gli hanno ripetuto tutte le calunnie che aveva detto su di me. Alla fine lui ha detto che eravamo un branco di cani che saltano addosso al primo che capita, però, dopo, è sparito e non si è più fatto vedere. In queste situazioni capisci di avere degli amici veri. E adesso vengo al punto, uno dei miei amici, un mio ex, mi sa che si sta innamorando veramente di me. Scherza poco, sta sulle sue, mi sta a sentire, sorride e non fa chiacchiere, certe volte, magari a distanza di settimane, parlo con lui anche per un’ora e mi sento a mio agio. Lui sa benissimo che genere di vita faccio e non si fa avanti, però mi rispetta. In realtà quando stavamo insieme per me aveva un po’ un doppio ruolo, un po’ era il mio ragazzo e un po’ era il fratello che non ho mai avuto, tra noi c’era complicità, poi ci siamo lasciati perché io pensavo che lui non fosse innamorato di me, ma probabilmente all’epoca non ero capace di capire veramente queste cose. Io mi rimetterei con lui ma non so se lui starebbe mai con uno come me. Che devo fare, Project? Penso che stasera ci parlerò chiaro.
Ci ho parlato! Non se l’aspettava ma era visibilmente contento, mi ha solo detto: Sarei contento e molto, ma vediamo come va, in ogni caso ti vorrò bene comunque.

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UNA COPPIA GAY DIVISA DALLA ZONA ROSSA III

Mail del 30/03/2010
Caro Project,
oggi i dati della Protezione Civile sono confortanti, dovrei essere più tranquillo e invece mi sento agitatissimo e non riesco ad andare avanti, Paolo stanotte lavora, l’ho sentito nel primo pomeriggio, lui tende a tranquillizzarmi, a rassicurarmi, ma quando sento il telegiornale e dicono che sono morti altri medici mi viene il terrore, un’ansia terribile e penso che ci possa essere anche lui. Lui mi dice che anche se prendesse il virus, lui non dovrebbe correre grossissimi rischi perché è giovane e la mortalità per quelli della sua età è bassa, ma tanti dei suoi colleghi sono risultati positivi e tanti sono anche morti. Lui non ha dubbi, si deve andare avanti, si deve mettere da parte ogni emozione per mantenere il massimo livello possibile di operatività. Mi dice sempre che si augura che tutta questa spaventosa avventura possa cambiare tanti modi assurdi di ragionare. Mi ha citato una frase di Papa Francesco che lo ha colpito molto, perché è quello che ha sempre pensato anche lui: “Pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato”. Avverto chiaramente che Paolo è stanco sfinito, lo avverto perché prima parlavamo molto su skype, adesso invece parliamo meno perché lui ha bisogno di dormire e allora lo lascio tranquillo, ma quando chiudo la chiamata mi comincia a prendere lo sconforto, ho paura, ho maledettamente paura. La gente comincia a rilassarsi e a pensare che ormai se ne sta uscendo, ma Paolo mi ripete continuamente che non è così, che la cosa può scappare di mano con estrema facilità e che si potrebbe ricominciare come prima e peggio di prima. Mi ripete che da loro non è cambiato ancora nulla e che non cambierà nulla ancora per parecchi giorni, lui dice almeno tre settimane. Adesso hanno un po’ di mezzi in più rispetto ai primi giorni, se c’è qualcosa che fa la differenza, se mai, è proprio questo, è sempre una lotta ma un po’ meno alla disperata. La gente continua a morire esattamente come prima anche se i medici possono almeno dire di avere fatto tutto il possibile. Paolo mi dice che per tornare a livelli accettabili il numero dei ricoverati in terapia intensiva dovrebbe diminuire almeno del 50%, ma ci vorrà tempo e la gente continuerà a morire. Lui pensa a tanti altri paesi in cui non c’è un servizio sanitario pubblico in grado di reagire come il nostro e mi dice che lì la mortalità sarà per forza molto più alta. Ormai noi ci sentiamo al massimo per mezz’ora al giorno, lo vedo stanco, molto più magro del solito ma è anche tranquillo, non so come faccia ad essere tranquillo, è evidente che è consapevole di fare qualcosa di fondamentale, mi dice che la cosa che gli riesce più difficile è non farsi abbattere dagli insuccessi, che sono tanti, tantissimi. Non riseco a dormire, Project, chiedo a Dio di salvarlo ma quando lo faccio mi vengono mille dubbi, perché lui e non anche gli altri? Che senso ha pregare? Perché succedono catastrofi come questa epidemia? O forse ci accorgiamo dei disastri che sconvolgono il mondo solo quando capitano a noi. Non riesco nemmeno a pregare, mi sembra un atto di egoismo, un chiedere qualcosa per sé, mentre forse bisognerebbe solo dire: “sia fatta la tua volontà” anche se non ne capiamo il senso o ci rifiutiamo di capirlo perché ci tocca personalmente. Certe volte mi sorprendo a fare ragionamenti assurdi, quasi a cercare di fare un contratto con Dio: Lui mi salva il mio Paolo e io rinuncio al sesso, ma poi mi sembra una specie di mercato stupido, se penso che per avere Paolo indenne devo rinunciare al sesso vuol dire che in fondo anche io penso che il sesso tra noi sia una cosa negativa, ma io non lo penso affatto, perché non è così, e poi non devo chiedere nulla per me, sarà quello che sarà, è andrà accettato comunque, anche se potrà essere qualcosa di terribile, come l’hanno accettato decine di migliaia di persone. In certi momenti ho anche meno paura della morte, della mia personale, dico, perché la vedo meno come un dramma personale e più come un destino collettivo e vorrei dire quasi naturale. Non ce la faccio più, Project, penso a Paolo in ogni momento, provo a immaginare che cosa sta facendo in quel momento e sogno che l’incubo finisca il più presto possibile e che si possa tornare insieme nella sua casetta ai piedi delle Alpi, ma tutto questo mi sembra ancora maledettamente lontano e incerto. Pensa anche a me, se puoi, Project, leggere le tue mail mi aiuta ad andare avanti con meno angoscia.
Ovviamente puoi fare l’uso che vuoi di questa mail.
Ti abbraccio.
Pietro

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UNA COPPIA GAY DIVISA DALLA ZONA ROSSA II

L’email che segue (che ho ricevuto il 24/3/2020) rappresenta il seguito del post:  http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=22&t=6863 (email che avevo ricevuto il 13/3/2020)

Caro Project,

ti avevo scritto qualche giorno fa, penso ti ricorderai di Pietro e Paolo. Ti scrivo nei lunghi momenti di vuoto in cui non posso sentire Paolo e mi ritrovo da solo a riflettere su quello che sta succedendo.

La situazione generale dell’epidemia basterebbe da sola a chiunque per cominciare un ripensamento di tutta la vita, per chi ha perso persone care la situazione è terribile, si vede svanire in pochi giorni il progetto di una vita, la morte sconvolge le famiglie nel modo più violento e inatteso, ma per me e per Paolo la situazione non è per fortuna così drammatica, io ho paura per lui, so che è prudente e molto scrupoloso ma basta veramente poco per fare la differenza.

Quanto a me, che sono il meno esposto in modo diretto, ho cominciato a mettere in dubbio tante mie certezze, mi sento molto più fragile di prima, sto svalutando un sacco di cose che prima consideravo fondamentali, come la sicurezza economica e un’ampia possibilità di fare le mie scelte ma mi sento debole perché sono esposto al rischio di perdere Paolo e sarebbe per me una tragedia alla quale non oso neppure pensare.

Il padre di un mio amico è morto per il virus e altri due miei amici hanno un genitore in ospedale. Molti hanno paura e cercano di tirare avanti giorno per giorno come possono perché devono pure lavorare per sopravvivere. Io lavoro da casa, non corro rischi seri, almeno per il momento, ma sono preoccupato per Paolo, penso a lui in ogni momento della giornata perché è proprio in prima linea e lo sento stremato dalla fatica e abbattuto per quello che deve vedere ogni giorno e che quando parla con me cerca sistematicamente di omettere.

Gli ho sempre voluto bene, ma vedendo come si impegna per gli altri fino allo sfinimento comincio a considerarlo un mezzo santo, e penso che non sarò mai al suo livello. In questi giorni ha visto morire tantissima gente, ha cercato di dare conforto come era possibile e finché era possibile, ma poi vedeva cedere quelle persone che aveva cercato di salvare in ogni modo. Mi dice che ormai per lui la morte non è solo una realtà quotidiana ma una cosa che deve vedere più volte al giorno. Quando qualcuno esce dalla rianimazione si sente felice e in effetti qualche volta si tratta quasi di un miracolo.

Lui era già prima un ragazzo ottimo, generoso, altruista, ma adesso lo vedo proprio in un’altra atmosfera e, se possibile, gli voglio bene anche più di prima, perché l’ho visto all’opera, ho visto la sua dimensione morale. Ieri mi ha chiesto di dire una preghiera per lui, e io mi sono spaventato e gli ho chiesto sera positivo e mi ha detto di no, mi aveva chiesto una preghiera per essere aiutato ad andare fino in fondo e a non mollare, aveva bisogno di una forza più grande, di una consolazione, penso, da poter trasmettere a tutte le persone che cerca di curare ogni giorno.

Oggi mi sono fermato a pregare per lui, che poi è una cosa che non faccio mai, ma nella mia preghiera c’era qualcosa di egoistico, io pregavo di non perderlo, perché per me è essenziale come la luce del sole, ma lui mi aveva chiesto una cosa diversa, cioè di pregare per avere la forza di andare avanti. Io so che sta correndo rischi seri e sono molto spaventato e mi pare pure giusto chiedere al Signore che non me lo tolga, anche se siamo una coppia gay, perché noi ci vogliamo bene veramente.

Stasera mi sento molto agitato, certe volte la notte non riesco a prendere sonno, mi manca, mi manca dannatamente ma so che lui ha il suo dovere da compiere e che lo farà fino in fondo. Io non ho mai visto morire nessuno, ho visto dei morti, ma non ho mai visto morire nessuno, ma lui queste cose le vede ogni giorno e penso che sia proprio il vedere la sofferenza e la morte che gli dia una spinta fortissima a fare quello che fa.

Ieri mi ha raccontato che una signora che era uscita dalla terapia intensiva e che lui aveva assistito per giorni gli aveva regalato un rosario di legno e gli aveva detto che avrebbe pregato per lui e per la sua ragazza, lui si è commosso e ha detto alla signora che non aveva una ragazza ma un ragazzo perché era gay e la signora gli ha detto che andava bene lo stesso e che avrebbe pregato anche per il suo ragazzo, che lui era un bravo ragazzo e avrebbe potuto dare tanto al suo ragazzo. Poi la signora si è messa a piangere, perché aveva un figlio più o meno dell’età di Paolo. Quando mi ha raccontato questa storia aveva la voce rotta dall’emozione! Come fai a non amare un uomo come Paolo? Lo avrei abbracciato fortissimo! Lo avrei sollevato da terra per fargli sentire che gli voglio bene! Sono molto scosso e ansioso, Project, ma per me questi giorni sono un’esperienza profondissima che mi sta cambiano la vita.

Pietro

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GAY E SINODO DEI GIOVANI

Nell’Ottobre del 2014, solo quattro anni fa, a conclusione del Sinodo sulla famiglia, mi trovai a scrivere un articolo intitolato “Il Sinodo sulla famiglia e il topolino gay”. Il titolo alludeva al fatto che dopo le grandi aspettative suscitate dall’”Instrumentum laboris”, cioè dal documento preparatorio, la “Relatio post discerptationem “ aveva enormemente ridimensionato le cose, e la “Relatio Synodi” cioè il documento finale, aveva definitivamente mortificato qualsiasi aspettativa, limitandosi alla materiale ripetizione dei contenuti delle ”Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” firmata da Joseph Ratzinger, allora Prefetto delle Congregazione per la Dottrina della Fede, nel giugno del 2003. La montagna, dopo un lungo e faticoso travaglio, aveva partorito il topolino ma i padri sinodali ne erano rimasti così terrorizzati da affrettarsi a divorarlo prima che uscisse dall’aula del Sinodo. Ma “Sic transit gloria mundi!”

Il 28 Agosto di quest’anno scrissi un altro articolo “Papa Francesco non sa cosa sia l’omosessualità” quando Papa Francesco, nel volo di ritorno da Dublino, parlando a braccio, come è solito fare, rispondendo ad una domanda relativa all’atteggiamento che dovrebbe prendere un genitore di fronte al coming out del figlio, così si espresse:

“In quale età si manifesta questa inquietudine del figlio, è importante, una cosa è quando si manifesta da bambino, c’è… ci sono molte cose da fare… con la psichiatria… per vedere come… come sono le cose. Un’altra cosa è quando si manifesta un po’ dopo vent’anni o cose del genere, no?…”

Ero stupito che il Papa non avesse assolutamente le idee chiare su quello che la Psichiatria seria dice della omosessualità, anche se oggettivamente l’omosessualità non appare e non è certo la tematica fondamentale o il pensiero ossessivo di Papa Francesco. Va sottolineato però che, a parte questo cenno improvvido, negli atteggiamenti personali di Papa Francesco sono del tutto assenti i toni della crociata anti-gay tipici di Benedetto XVI, ai quali si ispirava anche il Sinodo sulla famiglia del 2014.

Da pochi giorni si è concluso il Sinodo sui giovani e cercherò qui di seguirne lo sviluppo relativamente al tema della omosessualità.

Il Documento finale pre-sinodale, così si esprime sul tema:

“Problemi come la pornografia distorcono la percezione della sessualità umana da parte dei giovani. La tecnologia usata in questo modo crea una ingannevole realtà parallela che ignora la dignità umana.”

“C’è spesso grande disaccordo tra i giovani, sia dentro che fuori la Chiesa, riguardo ad alcuni dei suoi insegnamenti che oggi sono particolarmente dibattuti. Tra questi troviamo: contraccezione, aborto, omosessualità, convivenza, matrimonio e la modalità di percezione del sacerdozio nelle diverse realtà della Chiesa. E’ importante notare che, indipendentemente dal livello di comprensione degli insegnamenti della Chiesa, continua ad esserci disaccordo e dibattito aperto tra gli stessi giovani su queste controverse questioni. Di conseguenza, può darsi che essi vogliano che la Chiesa cambi i suoi insegnamenti o, perlomeno, che fornisca una migliore spiegazione ed una maggiore formazione su tali questioni. Nonostante questo dibattito interno, i giovani cattolici le cui convinzioni sono in contrasto con l’insegnamento ufficiale della Chiesa desiderano comunque farne parte. Molti giovani cattolici accettano questi insegnamenti, trovando in essi una fonte di gioia. Desiderano che la Chiesa non solo continui ad attenervisi nonostante la loro impopolarità, ma che li proclami insegnandoli con maggiore profondità.”

“Noi, la Chiesa giovane, chiediamo alle nostre guide di affrontare in maniera concreta argomenti controversi come l’omosessualità e le tematiche del gender, su cui i giovani già discutono con libertà e senza tabù. Alcuni percepiscono la Chiesa come “antiscientifica”; per questo il dialogo con la comunità scientifica è certamente importante, in quanto la scienza è in grado di illuminare la bellezza della creazione.”

Vorrei soffermarmi in particolare su ciascuno di questi punti.

È un fatto evidente che la pornografia distorce la percezione della sessualità e non solo quella dei giovani, tuttavia la Chiesa condanna come pornografia anche la rappresentazione non distorta della sessualità. Ho insistito spesso anche io sul fatto che la pornografia non rappresenta correttamente la sessualità ma ritengo che una rappresentazione realistica della sessualità, che non la banalizzi e non la riduca a mera performance, sia non solo utile ma necessaria perché si capisca che la sessualità può essere espressione di un’affettività profonda, ma può anche essere vissuta in modo leggero ma comunque rispettoso dell’altro, e può perfino trasformarsi in una forma di sopraffazione e di violenza e questo vale sia in ambito gay che etero. Sento molti ragazzi gay usare espressioni del tipo: “Preferisco mille volte vedere una storia d’amore gay con un po’ di sesso che un porno, che alla fine non ha alcun senso ed è stato costruito solo per fini commerciali.” Bisognerebbe meditare sull’idea di una educazione sessuale (anche degli adulti) costruita sulla realtà per non lasciare spazio alla sola strumentalizzazione della sessualità, ma su questo terreno la Chiesa non si è mai espressa seriamente.

Quanto al disaccordo tra i giovani, sia dentro che fuori della Chiesa, su temi che adesso sono particolarmente dibattuti, tra i quali si trova anche l’omosessualità, va detto che il disaccordo non esiste solo tra i giovani ma anche tra le persone di età matura e anche all’interno della stessa Chiesa gerarchica. Quando il documento preparatorio parla di “giovani cattolici le cui convinzioni sono in contrasto con l’insegnamento ufficiale della Chiesa, che desiderano comunque farne parte” afferma che ci si può sentire cattolici e nello stesso tempo in contrasto con l’insegnamento ufficiale della Chiesa e questo accade proprio perché si ritiene che quell’insegnamento sia comunque non conforme allo spirito evangelico e sia viziato da visioni pregiudiziali, da eredità di altre epoche che andrebbero radicalmente riviste alla luce di una visione scientificamente fondata sulla realtà, basti a questo proposito ricordare che il Catechismo della Chiesa cattolica e i documenti pontifici in tema di omosessualità parlano di “grave depravazione”, “funesta conseguenza di un rifiuto di Dio”, “mancanza di evoluzione sessuale normale”, “costituzione patologica” , “comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale”. San Pio X, nel suo Catechismo del 1910, classifica il “peccato impuro contro natura” come secondo per gravità solo all’omicidio volontario, fra i peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio”.

Tutte queste cose sono, oltre che pericolose, perfino ridicole per chi ha un minimo di conoscenza della realtà, del tutto lontane della oggettività scientifica e frutto di puri pregiudizi, queste cose andrebbero riviste radicalmente con onestà intellettuale. L’idea della omosessualità come “colpa” o come “patologia” ha ormai fatto il suo tempo ed è stata archiviata dalla comunità scientifica da decenni. L’affermazione secondo la quale « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati », contenuta nell’art. 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica stride fortemente con l’affermazione più volte ripetuta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale l’omosessualità è “una variante naturale e non patologica” della sessualità umana.

Il documento preparatorio afferma che la dottrina della Chiesa è per molti cattolici fonte di gioia. Da quello che vedo ogni giorno tra i giovani gay, la dottrina della Chiesa in tema di omosessualità è una delle motivazioni di fondo per le quali i gay abbandonano la Chiesa, migrando talvolta verso altre confessioni religiose. I giovani gay abbandonano una Chiesa che li bolla come gravemente depravati, come persone che scontano le funeste conseguenze di un rifiuto di Dio, come individui sessualmente non normali, casi patologi che mettono in pratica comportamenti intrinsecamente cattivi dal punto di vista morale, secondi per gravità solo all’omicidio volontario! Mi chiedo come sia possibile provare gioia di fonte a queste affermazioni che non sono solo pericolose e violentemente omofobe ma sono radicalmente anticristiane.

Nel documento preparatorio si legge: “Noi, la Chiesa giovane, chiediamo alle nostre guide di affrontare in maniera concreta argomenti controversi come l’omosessualità e le tematiche del gender, su cui i giovani già discutono con libertà e senza tabù.”

Mi fermo su un solo elemento la cui presenza è sorprendente: il “gender”, una specie rimodernata di “araba fenice” di metastasiana memoria, una cosa della quale tutti parlano ma che nessuno ha mai visto! Ne parla Benedetto XVI in modo insistente, e questo non stupisce troppo, ma perfino papa Francesco ha espresso qualche preoccupazione per la teoria del gender, che però non ha alcun riscontro scientifico, né la sociologia né la psichiatria seria hanno mai parlato di questo fantomatico argomento e meno che mai nel modo assolutamente improbabile descritto dagli atti della Chiesa. La cosiddetta teoria del gender è un’invenzione di Mons. Tony Anatrella. «La teoria del “gender” ci prepara un mondo dove nulla sarà più percepito come stabile», dice lo psicanalista Tony Anatrella. «I danni provocati dal divorzio non sono nulla rispetto a quelli che può causare l’ideologia LGBT» (https://www.tempi.it/e-vietato-dirlo-ma-col-sesso-non-si-gioca/#.WBRzvPmLSUl). Aggiungo solo per inciso che Mons. Anatrella è accusato di abusi sessuali e l’articolo di Mediapart : «De nouveaux témoignages accablent Mgr Anatrella et ses thérapies sexuelles»  fornisce ampi ragguagli in proposito.

Mi chiedo come sia possibile dare spazio alle estemporanee teorie di Mons. Tony Anatrella e trascurare del tutto quello che l’Organizzazione Mondiale della Sanità va ripetendo ormai da diversi decenni. E ci si dovrebbe stupire che qualcuno possa accusare la Chiesa di anti-scientificità? Galileo docet: “il lupo perde il pel ma non il vizio.”

Vengo ora all’esame del documento finale del Sinodo relativamente alle parti concernenti l’omosessualità.

Comincio con un’osservazione: nel documento finale manca del tutto ogni riferimento alla teoria del gender, ed è un grande passo avanti, come dire che si è smesso di fare la lotta contro la befana! Era ora!

Devo aggiungere che la lettura integrale del documento, che richiede tempo e attenzione, lascia al lettore una qualche impressione di novità. I richiami al magistero di Benedetto XVI sono rari, le sottolineature della intangibilità della dottrina sono sostituite da qualche timida apertura alla necessità di un approfondimento, la tendenza è al dialogo e non all’arroccamento, non si individua un nemico in chi non condivide certi elementi della morale cattolica ma si cerca di mantenere aperto un dialogo.

Preciso che il Vaticano ha pubblicato anche gli esiti delle votazioni relative ai singoli articoli del documento. È significativo che gli art. 149 e 150 che trattano di sessualità abbiano registrato il più alto numero di non placet nel Sinodo. L’art. 149, che tratta di sessualità in modo generico ha ottenuto 214 voti favorevoli e 26 contrari, l’art. 150, che tratta più specificamente di omosessualità “senza toni da crociata” ha ottenuto 178 voti favorevoli e 65 contrari, il massimo numero di voti contrari tra tutti gli articoli del sinodo. Ricordo che per essere approvato un articolo deve ottenere ameno i 2/3 dei voti dei presenti. L’articolo 150 è passato ma col quorum più basso rispetto a tutti gli altri articoli.

Colpiscono alcuni riferimenti al lato oscuro del web che è diventato “un canale di diffusione della pornografia e di sfruttamento delle persone a scopo sessuale o tramite il gioco d’azzardo.”

Il riferimento all’abuso sessuale e agli scandali sessuali interni alla Chiesa, che pure poteva suscitare polemiche, non è stato omesso.

Si afferma che “Insieme al permanere di fenomeni antichi, come la sessualità precoce, la promiscuità, il turismo sessuale, il culto esagerato dell’aspetto fisico, si constata oggi la diffusione pervasiva della pornografia digitale e l’esibizione del proprio corpo on line.” Si prende quindi coscienza di cose oggettive e oggettivamente pericolose.

Si coglie l’imbarazzo della Chiesa nel presentare e difendere la propria morale sessuale e si sottolinea che: “Frequentemente infatti la morale sessuale è causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna. Di fronte ai cambiamenti sociali e dei modi di vivere l’affettività e la molteplicità delle prospettive etiche, i giovani si mostrano sensibili al valore dell’autenticità e della dedizione, ma sono spesso disorientati. Essi esprimono più particolarmente un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità.” E anche qui non emergono giudizi.

L’accenno all’autenticità come valore di fondo della sessualità non era mai stato presente nei documenti ufficiali della Chiesa.

Si accenna allo sfruttamento sessuale, agli stupri di guerra, tutti temi molto sentiti dalla morale laica. In sostanza la distanza tra la morale laica e quella cattolica sembra restringersi almeno marginalmente e forse non solo, perché molti dei grandi valori cristiani sono anche grandi valori laici.

Riporto qui di seguito per esteso gli art. 149-150 che riguardano più da vicino l’omosessualità:
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Sessualità: una parola chiara, libera, autentica

art. 149. Nell’attuale contesto culturale la Chiesa fatica a trasmettere la bellezza della visione cristiana della corporeità e della sessualità, così come emerge dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione e dal Magistero degli ultimi Papi. Appare quindi urgente una ricerca di modalità più adeguate, che si traducano concretamente nell’elaborazione di cammini formativi rinnovati. Occorre proporre ai giovani un’antropologia dell’affettività e della sessualità capace anche di dare il giusto valore alla castità, mostrandone con saggezza pedagogica il significato più autentico per la crescita della persona, in tutti gli stati di vita. Si tratta di puntare sull’ascolto empatico, l’accompagnamento e il discernimento, sulla linea indicata dal recente Magistero. Per questo occorre curare la formazione di operatori pastorali che risultino credibili, a partire dalla maturazione delle proprie dimensioni affettive e sessuali.

art. 150. Esistono questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità che hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale, da realizzare nelle modalità e ai livelli più convenienti, da quelli locali a quello universale. Tra queste emergono in particolare quelle relative alla differenza e armonia tra identità maschile e femminile e alle inclinazioni sessuali. A questo riguardo il Sinodo ribadisce che Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa, rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale. Ugualmente riafferma la determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità tra l’uomo e la donna e ritiene riduttivo definire l’identità delle persone a partire unicamente dal loro «orientamento sessuale» (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1 ottobre 1986, n. 16).

Esistono già in molte comunità cristiane cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali: il Sinodo raccomanda di favorire tali percorsi. In questi cammini le persone sono aiutate a leggere la propria storia; ad aderire con libertà e responsabilità alla propria chiamata battesimale; a riconoscere il desiderio di appartenere e contribuire alla vita della comunità; a discernere le migliori forme per realizzarlo. In questo modo si aiuta ogni giovane, nessuno escluso, a integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé.
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Mi limito ad osservare che il richiamo alla Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, redatta da Ratzinger nel 1986 è puramente di stile e cita uno degli elementi meno sostanziali di quel documento dell’oscurantismo più radicale, che suscitò, a dire poco, grosse perplessità.
La parte finale dell’art. 150 contiene una formula volutamente neutra di apertura, rivolta a tutti, nessuno escluso che non rimarca alcuna condanna o esclusione.

In sintesi, il documento finale del Sinodo sembra, almeno nel linguaggio, e forse non solo nel linguaggio, contenere qualche apertura verso un modo non solo più scientifico e oggettivo ma anche più evangelico di concepire l’omosessualità. È pur sempre vero che una rondine non fa primavera e che il vento (anche quello dello Spirito) soffia dove vuole e potrebbe cambiare sempre direzione, ma si avverte l’impressione che il lievito stia cominciando a far fermentare tutta la pasta, o almeno buone porzioni di essa. Il tempo ci permetterà di capire se si tratta solo di un fatto episodico o se è realmente l’inizio di un’apertura, sulla quale mantengo comunque tutte le mie riserve, perché il buon senso e l’esperienza inducono a frenare gli entusiasmi e a seguire l’esempio di San Tommaso.

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Se volete, potete partecipare alla discussione di questo post aperta sul Forum di Progetto Gay: http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=6750

PAPA FRANCESCO NON SA CHE COSA SIA L’OMOSESSUALITA’

Papa Francesco, nel volo di ritorno da Dublino, parlando a braccio, come è solito fare, rispondendo ad una domanda relativa all’atteggiamento che dovrebbe prendere un genitore di fronte al coming out del figlio, così si è espresso:

“In quale età si manifesta questa inquietudine del figlio, è importante, una cosa è quando si manifesta da bambino, c’è … ci sono tante cose da fare… con la psichiatria o.. , o… per vedere come sono le cose. Un’altra cosa è quando si manifesta un po’ dopo vent’anni o cose del genere…”

Mi chiedo senza spirito di polemica come possa un Papa non avere la più pallida idea di che cosa sia realmente l’omosessualità.

Nella classificazione dei disordini mentali e comportamentali contenuta nella decima formulazione del documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la classificazione della malattie (ICD-10), l’omosessualità non è più in alcun modo considerata una malattia e si riconosce l’esistenza di forme distoniche di tutti gli orientamenti sessuali. L’omosessualità eco-distonica è una omosessualità riconosciuta dal soggetto ma non accettata. Se un omosessuale, pienamente cosciente di essere omosessuale, entra in conflitto col suo orientamento sessuale per ragioni religiose, morali o sociali e desidera cambiare orientamento sessuale, si dice che la sua è una omosessualità ego-distonica. Questa categoria è ormai desueta e l’omosessualità ego-distonica non è più classificata come disturbo mentale, ma come semplice disagio dovuto a ragioni culturali o sociali. L’ICD-10 è stato approvato dalla 43esima Assemblea della OMS nel maggio del 1990 ed è entrato in uso negli Stati aderenti alla OMS dal 1994. È attesa la pubblicazione del l’ICD-11 entro il 2018, e si prevede che sia completamente eliminato qualsiasi riferimento alla omosessualità anche ego-distonica.

Il mantenimento della categoria di “Omosessualità ego-distonica” ha alimentato il florido mercato delle terapie di conversione mirate al riportare gli omosessuali alla eterosessualità, perché queste pratiche aberranti erano considerate ufficialmente forme di cura per una “malattia” e quindi erano rimborsabili dalle assicurazioni sanitarie o dai servizi sanitari nazionali, ove presenti.

L’omosessualità era stata eliminata fin dal 1973 dal DSM (Diagnostic and Statistical Manual del American Psychiatric Association (APA)), dopo un percorso molto tortuoso in cui resistenze di tipo ideologico, opportunismi politici e interessi economici si intrecciavano in vario modo, in un territorio di confine in cui la scienza (psichiatria) rischiava di perdere anche l’apparenza dell’oggettività. Rinvio a questo proposito a un bell’articolo di Jack Drescher: Out of DSM: Depathologizing Homosexuality https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4695779/ che illustra il percorso che ha portato alla depatologizzazione della omosessualità da parte dell’APA.

Riporto qui di seguito un documento fondamentale in tema di terapie riparative:
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Organizzazione Panamericana della Sanità
Ufficio Regionale della
Organizzazione Mondiale della Sanità

“CURE” PER UNA MALATTIA CHE NON ESISTE

Le presunte terapie volte a cambiare l’orientamento sessuale mancano di giustificazione medica e sono eticamente inaccettabili.

Introduzione

Moltissimi esseri umani vivono la loro vita circondati da rifiuto, maltrattamenti e violenza per il loro essere percepiti come “diversi”. Tra loro, milioni sono vittime di atteggiamenti di diffidenza, disprezzo e odio a causa del loro orientamento sessuale. Queste espressioni di omofobia sono basate sull’intolleranza derivante da cieco fanatismo ma anche da concezioni pseudoscientifiche che considerano il comportamento sessuale non-eterosessuale e non procreativo una “deviazione” o il risultato di un “difetto di sviluppo”.

Qualsiasi siano le sue origini e le sue manifestazioni, ogni forma di omofobia ha effetti negativi sulle persone colpite, le loro famiglie e gli amici e la società in generale. Sono moltissimi i racconti e le testimonianze di sofferenze, sensi di colpa e di vergogna, esclusione sociale, minacce e lesioni e sono moltissime le persone che sono state brutalizzate e torturate fino al punto da riportare lesioni, cicatrici permanenti e anche la morte. Di conseguenza, l’omofobia rappresenta un problema di salute pubblica che deve essere affrontato energicamente.

Ogni espressione di omofobia è deplorevole ma i danni causati da professionisti della sanità a causa di ignoranza, pregiudizio, intolleranza o sono assolutamente inaccettabili e devono essere evitati a tutti i costi. Non solo è di fondamentale importanza che ogni persona che utilizza i servizi sanitari sia trattata con dignità e rispetto, ma è anche fondamentale impedire l’applicazione di teorie e modelli che vedono l’omosessualità come una “deviazione” o una scelta che può essere modificata attraverso il “potere della volontà” o attraverso presunti “supporti terapeutici”.

In molti paesi delle Americhe, è stata evidenziata una promozione continua, attraverso presunte “cliniche” o “singoli terapeuti”, di servizi volti a “curare” l’orientamento non-eterosessuale, un approccio noto come “riparativo” o “terapia di conversione.”1 Preoccupa il fatto che questi servizi sono spesso forniti non solo al di fuori della sfera di attenzione pubblica, ma in modo clandestino. Dal punto di vista dell’etica professionale e dei diritti umani protetti dai trattati regionali e universali e dalle convenzioni, come la Convenzione americana sui diritti umani e dal suo protocollo addizionale (“Protocollo di San Salvador”) 2, queste pratiche sono ingiustificabili e devono essere denunciate e assoggettate a sanzioni adeguate.

L’omosessualità come variante naturale e non patologica

Gli sforzi volti a modificare gli orientamenti sessuali non eterosessuali non hanno giustificazione medica in quanto l’omosessualità non può essere considerata una condizione patologica.3 I professionisti concordano sul fatto che l’omosessualità rappresenta una variante naturale della sessualità umana, senza alcun effetto intrinsecamente nocivo sulla salute delle persone interessate o delle persone vicine a loro. In nessuna delle sue manifestazioni individuali l’omosessualità costituisce un disturbo o una malattia, e quindi non necessita di cura. Per questo motivo l’omosessualità è stata rimossa da diversi decenni dai sistemi di classificazione delle malattie.4

L’inefficacia e la nocività delle “terapie di conversione”

Oltre alla mancanza di indicazione medica, non vi è alcuna prova scientifica dell’efficacia degli sforzi di riorientamento sessuale. Anche se alcune persone riescono a limitare l’espressione del loro orientamento sessuale in termini di comportamento, l’orientamento in sé appare in genere come una caratteristica integrale della persona, che non può essere modificata. Allo stesso tempo, abbondano le testimonianze sui danni alla salute fisica e mentale derivanti dalla repressione dell’orientamento sessuale di una persona. Nel 2009, l’American Psychological Association ha condotto una revisione di 83 casi di persone che erano state oggetto di interventi di “conversione”.5 Non solo è stato impossibile dimostrare variazioni dell’orientamento sessuale dei soggetti ma lo studio ha rilevato anche che l’intenzione di cambiare l’orientamento sessuale è legata alla depressione, all’ansia, all’insonnia, al senso di colpa e di vergogna, e anche a propositi e a comportamento suicidari. Alla luce di queste evidenze, il suggerire ai pazienti che essi soffrono di un “difetto” e che essi dovrebbero cambiare costituisce una violazione del primo principio dell’etica medica: “In primo luogo, non fare del male”. Si tratta di una lesione del diritto all’integrità personale nonché del diritto alla salute, soprattutto nelle sue dimensioni psicologiche e morali.

Segnalazioni di violazioni della integrità personale e di altri diritti umani

Come fattore aggravante, le “terapie di conversione” devono essere considerate minacce per il diritto all’autonomia personale e all’integrità personale. Ci sono diverse testimonianze di adolescenti che sono stati sottoposti a interventi “riparativi” contro la loro volontà, molte volte su iniziativa delle loro famiglie. In alcuni casi, le vittime sono state internate e private della loro libertà, a volte fino al punto di essere tenute in isolamento per parecchi mesi.6 Le testimonianze offrono racconti di trattamento degradante, estrema umiliazione, violenza fisica, condizionamento forzato attraverso scosse elettriche o sostanze chimiche e persino molestie sessuali e tentativi di “stupro riparativo”, soprattutto nel caso delle donne lesbiche. Tali interventi violano i diritti umani e la dignità delle persone interessate, indipendentemente dal fatto che il loro effetto “terapeutico” è nullo o addirittura controproducente. In questi casi, il diritto alla salute non è stato protetto come richiesto dagli obblighi nazionali e internazionali stabiliti attraverso il Protocollo di San Salvador e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

Conclusione

Gli operatori sanitari che offrono “terapie riparative” aderiscono a puri pregiudizi sociali e manifestano una forte ignoranza in materia di sessualità e di salute sessuale. Contrariamente a quanto molti credono o presumono, non vi è alcuna ragione – con l’eccezione dello stigma risultante proprio da tali pregiudizi – per la quale le persone omosessuali non possano godere di una vita piena e soddisfacente. Il compito dei professionisti della salute è quello di non causare danni e di offrire un sostegno ai pazienti per alleviare le loro sofferenze e i loro problemi, certamente non di rendere questi problemi più gravi. Un terapeuta che classifica i pazienti non-eterosessuali come “devianti” non solo li offende, ma contribuisce anche all’aggravamento dei loro problemi. Le terapie “riparative” o ” di conversione” non hanno alcuna indicazione medica e rappresentano una grave minaccia per i diritti umani e la salute delle persone. Esse costituiscono pratiche ingiustificabili che devono essere denunciate e assoggettate a sanzioni adeguate.

Raccomandazioni

Per i governi:

I maltrattamenti omofobi da parte degli operatori sanitari o di altri membri del team di assistenza sanitaria violano gli obblighi in termini di diritti stabiliti dai trattati universali e regionali. Tali trattamenti sono inaccettabili e non dovrebbero essere tollerati.

Le terapie “riparative” o “di conversione” e le cliniche che le offrono dovrebbero essere segnalate e assoggettate a sanzioni adeguate.
Le istituzioni che offrono tali “trattamenti” al margine del settore sanitario devono essere considerate come lesive del diritto alla salute, perché assumono un ruolo propriamente di pertinenza del settore sanitario e recano pregiudizio al benessere individuale e collettivo.7

Le vittime di maltrattamento omofobi devono essere trattate in accordo con i protocolli per fornire loro sostengono nel recupero della loro dignità e autostima.
Questo include l’obbligo di fornire loro un trattamento per il danno fisico ed emotivo e la protezione dei loro diritti umani, in particolare del diritto alla vita, all’integrità personale, alla salute, e all’uguaglianza di fronte alla legge.

Per le istituzioni accademiche:

Le istituzioni pubbliche responsabili della formazione degli operatori sanitari dovrebbero comprendere nei loto programmi corsi sulla sessualità umana e la salute sessuale, con un focus particolare sul rispetto della diversità e l’eliminazione di atteggiamenti di patologizzazione, rifiuto e odio verso le persone non-eterosessuali. La partecipazione di queste persone alle attività didattiche contribuisce allo sviluppo di modelli di ruolo positivi e all’eliminazione degli stereotipi comuni sulle comunità di persone non-eterosessuali.

La formazione di gruppi di sostegno all’interno delle facoltà e all’interno della comunità studentesca contribuisce a ridurre l’isolamento e a promuovere la solidarietà e le relazioni di amicizia e di rispetto tra i membri di questi gruppi.

Meglio ancora è la formazione di “alleanze di diversità sessuali” che includono persone eterosessuali.

Le molestie omofobe e i maltrattamenti da parte dei docenti della facoltà e degli studenti sono inaccettabili e non dovrebbero essere tollerate.

Per le associazioni di professionali:

Le associazioni professionali devono divulgare i documenti e le risoluzioni provenienti dalle istituzioni e dalle agenzie nazionali e internazionali che richiedono la de-psicopatologizzazione della diversità sessuale e la prevenzione di qualsiasi intervento finalizzato al cambiamento dell’orientamento sessuale.

Le associazioni professionali dovrebbero adottare posizioni chiare e definite in materia di tutela della dignità umana e dovrebbero definire le azioni necessarie per la prevenzione e il controllo dell’omofobia come problema di salute pubblica che incide negativamente sul godimento dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali.

L’applicazione delle cosiddette terapie “riparative” o “di conversione” deve essere considerata come fraudolenta e come una violazione dei principi fondamentali di etica medica. Le persone o le istituzioni che offrono questi trattamenti dovrebbero essere oggetto di sanzioni adeguate.

Per i mezzi di comunicazione:

La rappresentazione dei gruppi, delle popolazioni o degli individui non-eterosessuali nei media dovrebbe essere basata sul rispetto personale, evitando stereotipi o umorismo basato sullo scherno, sui maltrattamenti, o su violazioni della dignità o del benessere individuale o collettivo.

L’omofobia, in qualsiasi sua manifestazione ed espressa da qualsiasi persona, deve essere presentata come un problema di salute pubblica e una minaccia alla dignità umana e ai diritti umani.

L’uso di immagini positive di persone o gruppi non-eterosessuali, lungi dal promuovere l’omosessualità (in virtù del fatto che l’orientamento sessuale non può essere modificato), contribuisce a creare una visione più umana e più aperta alla diversità, a dissipare timori infondati e promuovere sentimenti di solidarietà.
La pubblicità che incita all’intolleranza omofoba dovrebbe essere denunciata come contributo all’aggravamento di un problema di salute pubblica e come una minaccia per il diritto alla vita, in particolare in quanto contribuisce alla cronica sofferenza emotiva, alla violenza fisica, e ai crimini di odio.

La pubblicità diffusa da “terapeuti”, “centri di cura”, o eventuali altri operatori che offrono servizi volti a cambiare l’orientamento sessuale dovrebbe essere considerata illegale e dovrebbe essere segnalata alle autorità competenti.

Per le organizzazioni della società civile:

Le organizzazioni della società civile possono sviluppare meccanismi di vigilanza civile per individuare le violazioni dei diritti umani delle persone non eterosessuali e segnalarle alle autorità competenti. Essi possono anche aiutare a identificare e segnalare le persone e le istituzioni coinvolte nella gestione delle cosiddette terapie “riparative” o “di conversione”.

I gruppi già esistenti o emergenti di auto-aiuto, i parenti o gli amici di persone non-eterosessuali possono facilitare il collegamento ai servizi sanitari e sociali, con l’obiettivo di proteggere l’integrità fisica e morale degli individui maltrattati, oltre che di segnalare abusi e violenze.

Promuovere interazioni rispettose e quotidiane tra persone di diverso orientamento sessuale è arricchente per tutti e promuove modi armonici, costruttivi, salutari e pacifici di convivenza comune.
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1 Human Rights Committee (2008). Concluding Observations on Ecuador(CCPR/C/ECU/CO/5), paragraph 12.
<http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrc/docs/co/CCPR.C.ECU.CO.5.doc&gt;
Human Rights Council (2011). Discriminatory Laws and Practices and Acts of Violence Against Individuals Based on Their Sexual Orientation and Gender Identity (A/HRC/19/41), paragraph 56. <http://www.ohchr.org/Documents/HRBodies/HRCouncil/RegularSession/Session19/AHRC-19-41_en.pdf&gt;
Human Rights Council (2011). Report of the Special Rapporteur on the Right of Everyone to the Enjoyment of the Highest Attainable Standard of Physical and Mental Health (A/HRC/14/20), paragraph 23.
<http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrcouncil/docs/14session/A.HRC.14.20.pdf&gt;
United Nations General Assembly (2001). Note by the Secretary-General on the Question of Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (A/56/156), paragraph 24. <http://www.un.org/documents/ga/docs/56/a56156.pdf&gt;
2 I diritti umani che possono essere lesi da queste pratiche includono, tra gli altri, il diritto alla vita, all’integrità personale, alla privacy, all’uguaglianza di fonte alla legge, alla libertà personale, alla salute, e ai benefici del progresso scientifico.
3 American Psychiatric Association (2000). Therapies Focused on Attempts to Change Sexual Orientation (Reparative or Conversion Therapies): Position Statement. <http://www.psych.org/Departments/EDU/Library/APAOfficialDocumentsandRelated/PositionStatements/200001.aspx&gt;
Anton, B. S. (2010). “Proceedings of the American Psychological Association for the Legislative Year 2009: Minutes of the Annual Meeting of the Council of Representatives and Minutes of the Meetings of the Board of Directors”. American Psychologist, 65, 385–475.
<http://www.apa.org/about/governance/council/policy/sexual-orientation.pdf&gt;
Just the Facts Coalition (2008). Just the Facts about Sexual Orientation and Youth: A Primer for Principals, Educators, and School Personnel. Washington, DC. <http://www.apa.org/pi/lgbc/publications/justthefacts.html&gt;
4 World Health Organization (1994). International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (10th Revision). Geneva, Switzerland.
American Psychiatric Association (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders(4th ed.,text revision). Washington, DC.
5 APA Task Force on Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation (2009). Report of the Task Force on Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation. Washington, DC.<http://www.apa.org/pi/lgbt/resources/therapeutic-response.pdf&gt;
6 Taller de Comunicación Mujer (2008). Pacto Internacional de Derechos Civiles y Políticos: Informe Sombra.
<http://www.tcmujer.org/pdfs/Informe%20Sombra%202009%20LBT.pdf&gt;
Centro de Derechos Económicos y Sociales (2005). Tribunal por los Derechos Económicos, Sociales y Culturales de las Mujeres.
<http://www.tcmujer.org/pdfs/TRIBUNAL%20DESC%20ECUADOR%20MUJERES.pdf&gt;
7 Vedi il Commento generale No. 14 da parte del Committee on Economic, Social, and Cultural Rights relativamente all’obbligo di rispettare, proteggere e conformarsi agli obblighi relativi ai diritti umani da parte degli Stati membri dell’International Covenant on Economic, Social, and Cultural Rights.
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Ovviamente Papa Francesco non conosce questi documenti ma solo il Catechismo della Chiesa Cattolica. Avrà anche coraggio nel lottare contro la pedofilia ma non ha assolutamente le idee chiare su quello che la Psichiatria seria dice della omosessualità. D’altra parte la Chiesa sembra suggerire ancora oggi, stando alle parole del Papa, una terapia riparativa da applicare in età molto anticipata.

Per capire che cosa sono in concreto le terapie riparative vi consiglio la lettura di in reportage giornalistico molto documentato concernente le “terapie riparative della omosessualità” ossia le terapie che i gruppi cattolici consigliano per risolvere il problema della omosessualità (http://progettogaytest.altervista.org/t … rative.htm) tutto sotto la supervisione di un professore di psicologia della Pontificia Università Gregoriana.

Già in altra occasione ho avuto modo di accennare alla gaia scienza di sedicenti scienziati, ma qui la cosa è più seria perché dietro queste cose c’è l’avallo della Chiesa e non si tratta quindi del solito guru isolato. In queste cose sono coinvolti uomini di Chiesa. Sono personalmente convinto che il messaggio cristiano sia una cosa serissima, o meglio una cosa che, se presa seriamente, è una cosa serissima, e ho conosciuto uomini di Chiesa che hanno veramente speso la vita per il prossimo. Mi chiedo come sia possibile che le cose che sono descritte nell’articolo ottengano l’avallo della Chiesa. Come sia possibile che un ragazzo di 15/16 anni e ancora peggio un ragazzino debba subire per volontà dei genitori una farneticante terapia “riparativa dell’omosessualità” queste cose non sono solo immorali ma sono al limite del codice penale.

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Se volete, potete partecipare alla discussione di questo post aperta sul Forum di Progetto Gay: http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=6649

RAGAZZI GAY E GENITORI OMOFOBI

Ciao Project,

ho 50 anni, non sono gay, ma ho un figlio gay di 25 anni e mi piacerebbe fare conoscere la mia esperienza ad altri genitori. Devo dirti che sono stato, negli ultimi due anni, un lettore assiduo dei tuoi siti che mi sono stati utilissimi. Ma cominciamo dall’inizio.

Sono nato nel 68, mi sono sposato giovane, nel 90, i miei pensavano che fosse troppo presto ma io l’ho voluto fare perché volevo vivere con mia moglie e non ho mai rimpianto quella scelta perché mia moglie è una persona che mi vuole bene veramente. Mio figlio, che qui chiamerò Diego, è nato nel 92, quando io avevo 24 anni ed ero un papà giovanissimo. Da piccolo Diego era un bambino molto vivace e curioso di tutto, che si sentiva molto il cucciolo di papà e mamma. Ho ricordi bellissimi di quel periodo (6-10 anni). Col crescere si è dimostrato anche bravo a scuola e molto responsabile, a 14 anni ha avuto le chiavi di casa. Tra noi c’è stato sempre un buon dialogo. Mia moglie non è mai stata una mamma-chioccia e ha cercato dai 14 anni in poi, di metterlo in contatto con ambienti sportivi in modo che potesse stare con altri ragazzi. A 14 anni Diego era già molto alto e giocava a basket a discreto livello, portava a casa i suoi compagni di squadra, li invita a pranzo, io e mia moglie cucinavamo e l’atmosfera era molto gradevole. Le cose sono andate avanti così fino ai 17 anni. Mio figlio non aveva mai portato a casa una ragazza e non aveva mai parlato di ragazze. In casa non avevamo mai parlato seriamente di sesso. Diego vedeva me e la madre che la sera vedevamo la televisione abbracciati e la cosa per lui era assolutamente naturale. Era capitato qualche volta di parlare un po’ di qualche trasmissione televisiva che accennava alla omosessualità. Sia io che mia moglie abbiamo sottolineato che ciascuno è quello che è e che solo le persone poco intelligenti possono avere pregiudizi in questo campo.

Vorrei chiarire che i nostri non erano atteggiamenti “politicamente corretti” assunti perché chi è di sinistra ragiona così. Io, in gioventù, ho avuto un amico gay molto più grande di me, che forse si era innamorato di me, che per me è stato un secondo padre, se non ci fosse stato lui non so che fine avrei fatto ma credo che avrei corso molti rischi e molto seri. Anche mia moglie l’ha conosciuto ed è rimasta molto colpita. Insomma, la faccio breve, per me l’omofobia non esiste perché sarebbe la più radicale contraddizione della mia vita e della mia esperienza.

Quindi Diego, a casa, non ha mai respirato un’atmosfera omofoba. Comunque quando aveva 17 anni io e mia moglie abbiamo cominciato a porci delle domande, non eravamo prevenuti verso l’omosessualità, ma avere un figlio unico e sapere che è gay non è comunque una cosa facilissima da accettare, non fosse altro perché uno si chiede come si deve comportare per fare il genitore nel modo migliore. Avevamo notato che Diego stava molto spesso con un ragazzo che chiamerò Dany, erano inseparabili. Dany veniva spasso a casa. Diego e Dany (“D&D” così si chiamavano tra loro) andavano al campeggio insieme, passavano le vacanze insieme di Natale e di Pasqua in giro per l’Italia. Diego era contento e si vedeva. Io e mia moglie non ci siamo mai intromessi, però abbiamo capito che tra loro c’era qualcosa di più di una semplice amicizia. Diego però non ci aveva accennato nulla e noi non ce la sentivamo proprio di fare domande in proposito. Dany disegnava benissimo, i suoi disegni erano delle vere opere d’arte, e piano piano casa nostra fu piena dei disegni di Dany. Nel frattempo Diego aveva compiuto 18 anni. La festa di compleanno non era stata un’invasione di amici, come quella dei 17, ma era stata tutta centrata su una gita (Sabato e Domenica) con Dany. Qualche volta Diego restava a dormire a casa di Dany, noi non dicevamo nulla ma nel sottofondo però avevamo qualche preoccupazione, non per l’omosessualità ma per i possibili rischi per la salute e un po’ di ansia la sentivamo eccome. Ho pensato che non se ne potesse fare a meno e ho deciso di parlare con Diego. Siamo usciti insieme un pomeriggio e siamo andati alla villa comunale e gli ho detto: “A me e a tua madre Dany ci sta benissimo, ma abbiamo qualche preoccupazione per la salute…” Lui mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: “abbiamo fatto il test tutti e due… e comunque lui non era mai stato con nessuno e nemmeno io.” Gli ho chiesto: “Ma i genitori di Dany lo sanno?” e lui mi ha risposto: “No! E questo è il problema più grosso, perché non sono come te e mamma… insomma Dany li teme.” Abbiamo parlato molto di questo fatto, Diego era veramente preoccupato. Dany avrebbe anche tagliato i ponti con la sua famiglia ma per lui sarebbe stato un trauma. Parlare con mio figlio non solo mi ha tranquillizzato ma mi ha fatto capire che ho un figlio d’oro e che posso ritenermi un padre felice. A casa ho raccontato a mia moglie del discorso fatto con Diego e lei mi ha guardato perplessa e mi ha detto: “Ma tu pensi che noi possiamo fare qualcosa per questi ragazzi?” Si riferiva al fatto di prendere contatto con la famiglia di Dany e di esplorare un po’ la situazione. Le ho risposto che su questo bisognava sentire non solo Diego ma soprattutto Dany. Un giorno che i ragazzi sono venuti a casa il discorso lo ha avviato proprio Diego, Dany sapeva già che noi sapevamo. Dany però era molto esitante, perché a casa sua nessuno sospettava nulla. In sostanza nessuno di noi quattro aveva le idee chiare. I ragazzi dovevano finire l’ultimo anno di liceo e poi sarebbero andati all’università, ovviamente insieme e in un’altra città, avrebbero fatto entrambi ingegneria e avrebbero preso anche un appartamentino monocamera insieme. Ma lo scoglio della famiglia di Dany restava un problema insoluto.  L’anno successivo i ragazzi sono andati all’università, e come previsto hanno condiviso un piccolo appartamento, metà delle spese le pagavamo noi e metà la famiglia di Dany. Le cose sembravano andare bene, i ragazzi erano contenti, poi Dany ha avuto la malaugurata idea di parlare chiaro con i suoi genitori e da lì è cominciato il disastro. Lo hanno minacciato, in pratica lo hanno minacciato di diseredarlo, e non è una cosa da poco perché è una famiglia che sta bene economicamente. Ho chiarito a Dany che in ogni caso la quota di legittima nessuna gliela avrebbe potuta togliere, ma lui nemmeno mi stava a sentire, voleva tagliare i ponti con la sua famiglia, evidentemente dopo il discorso di chiarimento, doveva essere stato trattato malissimo. La famiglia ha smesso di pagare le tasse universitarie e la quota dell’appartamento per costringere Dany e rientrare a casa, Dany voleva lasciare l’università e mettersi a lavorare ma lo abbiamo convinto che sarebbe stata una follia e che avrebbe fatto un danno grave anche Diego, perché studiando insieme ottenevano ottimi risultati, e lui si è lasciato convincere. Abbiamo pagato noi tutte le spese, che in fondo non erano poi una gran cosa. Dany però si sentiva in imbarazzo per questa cosa e noi non sapevamo che cosa fare per rimettere Dany di buon umore. Per fortuna poi i ragazzi sono stati molto impegnati nello studio e questi problemi sono passati in seconda linea. Ogni settimana o io o mia moglie ci facevamo un viaggetto fino a casa dei ragazzi per portare loro i pasti già cucinati per la settimana, in modo che non perdessero tempo per queste cose. Mia moglie lavava e stirava perché avessero gli abiti sempre in ordine, insomma, non li abbiamo lasciati soli e ormai si sono laureati entrambi brillantemente e hanno cominciato anche a lavorare, si tratta ancora di piccole cose, ma così si fanno conoscere e le prospettive si allargano. Purtroppo i genitori di Dany sono spariti, sembra incredibile ma è proprio così, si sono disinteressati del tutto del figlio, non avrei mai pensato che si potesse arrivare a tanto, ma è quello che è successo. Dany non li vede da anni, e poi adesso vive con Diego nella città dove hanno studiato e secondo me non hanno nessun desiderio di tornare nella città di origine. Noi li andiamo a trovare più o meno un weekend al mese e ci accolgono con entusiasmo. Dany è molto amareggiato dal comportamento dei suoi genitori ma ormai ha perso lo speranza che possa cambiare qualcosa.

Project, anche Diego e Dany ti conoscono e tu hai parlato con loro (prima con Diego e poi con Dany, dopo circa un mese, più o meno un anno fa), stai facendo un lavoro utilissimo. Mi piacerebbe molto che tanti genitori aprissero gli occhi e mettessero da parte i pregiudizi perché per un figlio gay vedere che i genitori tentano di forzare la sua libertà e poi spariscono quando si rendono conto che il figlio ha un suo mondo, significa perdere buona parte della visione positiva della vita. Dany aveva trovato Diego e poi ha trovato anche noi e tutto sommato, per lui la situazione non è stata distruttiva, ma se fosse stato solo sarebbe stato costretto a rinunciare agli studi e avrebbe finito per covare dentro di sé un risentimento violento, e tutto questo assolutamente senza nessuna ragione seria. Io ho un figlio gay ma è un ragazzo felice, né io né mia moglie abbiamo timori per il suo avvenire, perché è riuscito a realizzare quello desiderava e ora è un uomo adulto di cui andiamo orgogliosi, ha un ragazzo che ama e che lo ama e non resterà solo. Mi chiedo come sia possibile che ancora nel XXI secolo ci siano genitori tanto fuori dal mondo da pensare di poter abbandonare un figlio perché è gay. Tutto questo è veramente assurdo!

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CHIESA CATTOLICA E GAY AI TEMPI DI PAPA FRANCESCO

È da molto tempo che non scrivo sul tema dei rapporti tra Chiesa cattolica e Gay. Indubbiamente Papa Francesco non ha alimentato crociate contro gli omosessuali come aveva fatto più volte il suo predecessore Benedetto XVI, e questo fatto ha acceso speranze circa un ipotetico cambiamento di rotta della Chiesa cattolica in tema di omosessualità e circa ipotetiche aperture dello stesso Papa Francesco verso i gay. Dico ipotetiche perché, prima di diventare papa, l’allora Arcivescovo di Buenos Aires si era espresso con parole molto nette contro il riconoscimento legale delle unioni omosessuali (https://gayproject.wordpress.com/2013/0 … osessuali/), e anche il Sinodo sulla Famiglia, si era risolto in un fuoco di paglia e in una sostanziale riaffermazione del “magistero” di Benedetto XVI in materia di omosessualità. Non credo affatto che papa Francesco abbia mai avuto vere aperture verso i gay, ma ammesso e non concesso che le abbia avute, quello che è certo è che, come era assolutamente ovvio aspettarsi, di fatto, non è cambiato nulla. Il Catechismo, come era scontato, non è stato modificato e le cosiddette aperture si sono manifestate per quello che erano, ossia come dei tentativi di salvare la faccia.

Sono sempre rimasto stupito dall’insistenza con la quale gli omosessuali cattolici hanno cercato l’approvazione della Chiesa, un’approvazione sostanzialmente impossibile, che richiederebbe una revisione dottrinale profonda e la rinuncia della Chiesa alla pretesa dogmatica di essere l’infallibile interprete della volontà di Dio. La Chiesa è una realtà storica che del messaggio di Cristo ha fatto spesso strame e che, come tutte le realtà storiche, è profondamente condizionata della sua stessa tradizione che finisce per sovrapporsi al messaggio evangelico e per confondersi con esso, oscurandolo.

Vorrei proporre alla vostra lettura un documento a firma dell’Arcivescovo di Torino, col quale l’Arcivescovo sospende un seminario facente parte della “pastorale degli omosessuali” perché ne sarebbe stato frainteso il significato. Non entro sul fatto che il significato sia o meno stato frainteso, ma voglio sottolineare che il documento è una prova evidente che nella Chiesa nulla è cambiato e nulla potrà cambiare in tema di omosessualità.

Riporto qui di seguito il testo del messaggio dell’Arcivescovo di Torino, che si può leggere sul sito della Diocesi (http://www.diocesi.torino.it/site/pasto … -nosiglia/)

“Pastorale degli omosessuali: intervento di mons. Nosiglia
Dichiarazione dell’arcivescovo di Torino del 5 febbraio 2018
Di seguito la dichiarazione dell’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, del 5 febbraio 2018 riguardo alla pastorale degli omosessuali e agli interventi apparsi negli ultimi giorni su alcuni media:

A proposito di alcuni interventi dei media circa l’impegno pastorale di don Gianluca Carrega, sacerdote della Diocesi di Torino incaricato per la pastorale degli omosessuali, è opportuno precisare alcuni punti.

La Diocesi di Torino ha da diversi anni promosso un servizio pastorale di accompagnamento spirituale, biblico e di preghiera per persone omosessuali credenti che si incontrano con un sacerdote e riflettono insieme, a partire dalla  Parola di Dio, sul loro stato di vita e le scelte in materia di sessualità.

È questo un servizio che si è rivelato utile e apprezzato e che corrisponde a quanto l’esortazione apostolica “Amoris Laetitia” di Papa Francesco afferma e invita a compiere: “Desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona indipendentemente dal proprio orientamento sessuale va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei confronti delle famiglie con figli omosessuali è necessario assicurare un rispettoso accompagnamento affinché coloro che manifestano una tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita” (n. 250).

Questo è lo scopo del percorso spirituale di accompagnamento e discernimento proposto in Diocesi. Esso vuole dunque aiutare le persone omosessuali a comprendere e realizzare pienamente il progetto di Dio su ciascuno di loro. Ciò non significa approvare comportamenti o unioni omosessuali, che restano per la Chiesa scelte moralmente inaccettabili: perché tali scelte sono lontane dall’esprimere quel progetto di unità fra l’uomo e la donna espresso dalla volontà di Dio Creatore (Gen. 1-2) come donazione reciproca e feconda. Questo però non significa non prendersi cura dei credenti omosessuali e della loro domanda di fede.

Per questo il percorso che la Diocesi ha intrapreso non intende in alcun modo legittimare le unioni civili o addirittura il matrimonio omosessuale su cui la “Amoris Laetitia” precisa chiaramente che “non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie neppure remote tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia” (n. 251).

Alcune pubblicazioni hanno fornito, in questi giorni, interpretazioni diverse – spesso superficiali, a volte tendenziose – che rendono necessario chiarire le caratteristiche e i limiti del lavoro in questo ambito pastorale. Poiché si tratta di persone in ricerca, che vivono situazioni delicate e anche dolorose, è essenziale che anche l’informazione che viene pubblicata corrisponda alla verità e a una retta comprensione di quanto viene proposto, con spirito di profonda carità evangelica e in fedeltà all’insegnamento della Chiesa in materia.

Per questo ritengo, insieme con don Gianluca Carrega di cui apprezzo l’operato, che sia opportuno sospendere l’iniziativa del ritiro, al fine di effettuare un adeguato discernimento.

Mons. Cesare Nosiglia Arcivescovo di Torino”

Qualcuno si è stupito di quanto scritto dall’Arcivescovo di Torino, ma va sottolineato che il documento dell’Arcivescovo non fa che citare alla lettera la Amoris laetitia di Papa Francesco, che tratta in modo brevissimo di omosessualità soltanto in due punti, che riposto integralmente qui di seguito:

“250. La Chiesa conforma il suo atteggiamento al Signore Gesù che in un amore senza confini si è offerto per ogni persona senza eccezioni.[275] Con i Padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli. Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione»[276] e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita.[277] 

251. Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso».[278] 

[275] Cfr Bolla Misericordiae Vultus, 12: AAS 107 (2015), 409.
[276] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358; cfr Relatio finalis 2015, 76.
[277]Cfr ibid.
[278] Relatio finalis 2015, 76; cfr Congregazione per la Dottrina della Fede,
Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (3 giugno 2003), 4.”

Il documento di Papa Francesco si richiama alla Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia, al Catechismo della Chiesa Cattolica, e alla Relazione finale del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 2015, che a sua volta dedica alla omosessualità solo il n. 76:

“76. La Chiesa conforma il suo atteggiamento al Signore Gesù che in un amore senza confini si è offerto per ogni persona senza eccezioni (cf. MV, 12). Nei confronti delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, la Chiesa ribadisce che ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, vada rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4).

Si riservi una specifica attenzione anche all’accompagnamento delle famiglie in cui vivono persone con tendenza omosessuale. Circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia» (Ibidem). Il Sinodo ritiene in ogni caso del tutto inaccettabile che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso.”

La Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi cita esplicitamente le “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede, del 3 Giugno 2003, a firma dell’allora cardinale Prefetto Joseph Ratzinger. (viewtopic.php?f=78&t=3349) La dottrina della Chiesa in materia di omosessualità resta quindi esattamente quella sancita da Benedetto XVI.

Mi chiedo come facciano, oggi, i cattolici omosessuali a mantenere un atteggiamento di soggezione che comporta la subordinazione della coscienza individuale ad un “magistero” che nella sostanza non ha nulla di evangelico e non fa che perpetuare affermazioni di puro pregiudizio in netto contrasto con la verità scientifica e con l’esperienza quotidiana degli omosessuali.

Mi occupo di omosessuali da molti anni e conosco moltissimi omosessuali e molte coppie omosessuali, francamente, pensare che il piano di Dio per queste persone comporti l’obbligo della castità mi sembra un’affermazione veramente oscena.

Chi ha orecchio per intendere intenda!

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NON GIUDICARE GLI ALTRI GAY

Caro Project,

ho letto alcune parti del tuo libro “Essere Gay” e mi ha colpito l’idea di morale gay, cioè l’idea di distinguere tra una omosessualità buona e una cattiva o almeno meno buona. In questo modo io credo che tu voglia mettere in evidenza quanto c’è di buono nella omosessualità, e su questo non posso che concordare con te, ma purtroppo sottolineando quello che c’è di buono si finisce per sottolineare anche quello che c’è o ci può essere di negativo e qui potrei ancora essere d’accordo con te, ma con qualche limitazione significativa.

Project, tu dici di essere assolutamente laico e ti rispetto per questo, io vengo invece da una formazione cattolica abbastanza tradizionale, in teoria dovrei aver imparato a distinguere il bene dal male ma ho anche imparato a non giudicare e a non sottovalutare le ragioni degli altri, anche di quelli che hanno stili di vita diversissimi dal mio.

Sono ormai vicino ai 70 anni e ogni volta che mi capita di poter avere un dialogo serio con qualcuno che ha vissuto esperienze lontanissime dalle mie mi rendo conto che se per un verso mantengo la mia tendenza a giudicare, per l’altro sono fortemente frenato dal fatto che le cose sbagliate, quando sono viste da vicino sono molto meno strane e sbagliate di quanto appaiono quando sono viste solo da lontano o sono considerate solo in teoria.

Parlavo giorni fa con un ragazzo non ancora trentenne e, come mia vecchia abitudine e mio difetto, stavo per l’ennesima volta cercando di mettermi in cattedra, ma per fortuna mi sono trattenuto e ho lasciato spazio a quel ragazzo. Lui mi ha parlato con molta sincerità delle sue esperienze di vita e io mi sono sentito del tutto disarmato, mi rendevo conto che i miei argomenti moralistici non avevano alcun senso se confrontati con esperienze dure come quelle vissute da quel ragazzo. Mi sono sentito un totale imbecille, uno che si è illuso di capire tutto senza avere realmente alcuna conoscenza di ciò di cui sta parlando. Il mio mondo mi è sembrato solo un ammasso di chiacchiere vuote.

Che avrei fatto se mi fossi trovato nelle situazioni in cui si è trovato quel ragazzo? Che cosa avrei scelto? E poi, avrei avuto reamente la possibilità di scegliere? Quel ragazzo era radicalmente diverso da me nei suoi atteggiamenti perché aveva avuto una vita radicalmente diversa dalla mia e molto più dura della mia. Prima avrei giudicato male i ragazzi come lui, avrei detto che avevano l’idea fissa del sesso, ma, in fondo, vedevo sempre più chiaramente la stupidità di questi giudizi.

La moralità del mio essere gay, o almeno quella che a me sembra essere la moralità del mio essere gay, se vogliamo dire tutta la verità, mi viene dalla mia formazione cattolica, che mi ha in qualche modo preservato dalle esperienze più dure, cioè il mio essere cattolico mi ha fatto essere gay in un modo molto particolare, ma attenzione, si tratta di un modo più prudente, più oculato, più controllato, ma forse anche più ipocrita e meno sostanzialmente partecipativo. Ho fatto quello che fanno tutti i ragazzi, sesso compreso, anche se con prudenza, non sono un santo e mi rimprovero soprattutto di non aver fatto quel po’ di bene che avrei potuto fare, poi mi fermo a riflettere e mi chiedo che cosa mi ha allontanato per esempio dalla ricerca del sesso sfrenato, e onestamente, pensandoci bene, non credo che sia stata l’educazione cattolica ma la paura, cioè brutalmente la necessità di salvare la faccia, che è una cosa comunque molto meschina, ecco che il confine tra moralità e meschinità diventa molto meno netto.

La necessità di salvare la faccia per me aveva un valore solo perché non sono mai stato veramente me stesso al 100% e soprattutto non sono mai stato messo con le spalle al muro da situazioni di fatto più forti di me, come è accaduto a quel ragazzo, perché in quel caso con ogni probabilità mi sarei comportato esattamente come lui. Quando si va alla sostanza delle cose la moralità delle persone, più che una qualità individuale è il risultato di un contesto e gli stessi concetti di merito e di colpa perdono i loro contorni chiari.

In fondo lo stesso papa Francesco aveva detto. “Chi sono io per giudicare un gay?” Sembrava una frase impacciata, che voleva indicare un’apertura ma è una frase che ha un significato estremamente serio. Ho provato ad applicare quella frase a me stesso e sono arrivato alla conclusione che non ho alcun diritto di giudicare. Anche chi va alla ricerca disperata e quasi nevrotica di sesso può avere ugualmente una sua morale e quella morale non è peggiore della mia, ed è solo apparentemente diversa.

Dal dialogo con quel ragazzo ho capito che il sesso non gli ha portato affatto la felicità e che in lui il bisogno di essere amato e rispettato per quello che è veramente è vivissimo, direi anzi che è molto più vivo che in me. Siamo rimasti a parlare per ore e abbiamo capito che tra noi c’era un rispetto reciproco profondo, un rispetto reciproco quasi inaspettato ma assolutamente reale.

Project, permettimi una divagazione, io, che sono gay e che non voglio perdere il contatto con la mia fede, ammiro molto papa Francesco, perché, secondo me, ha riportato il Cristianesimo ai suoi valori fondanti, non ha fatto polemica con la modernità ma si è messo alla ricerca delle persone e delle loro sofferenze, in sostanza non ha giudicato ma ha cercato di fare sentire la sua voce a favore degli ultimi. Fare qualcosa di buono e di concreto senza giudicare nessuno, questo è il suo stile.

Insomma, adesso sento che il mio essere gay può essere veramente conciliabile con il mio essere cristiano, almeno fino ad un certo punto. So che tu hai sostenuto il contrario, ma lo hai sostenuto in altri tempi, e mi piacerebbe capire che cosa pensi oggi, dopo che papa Francesco ha dato una lettura più evangelica del cattolicesimo. Scusami se mi sono permesso di provocarti con questa mia mail ma ti stimo molto e mi piacerebbe sapere se sei sempre dello stesso parere. Vorrei sottolineare che apprezzo molto quello che fai.

Paolo

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Caro Paolo,

ho letto la tua mail con vivo interesse. Sì: non giudicare! È un principio evangelico ma è anche un dovere morale laico. Quello che dici di quel ragazzo, mi è capitato più volte e mi ha messo in crisi più volte. Adesso la mia tendenza a giudicare si è ridotta notevolmente e ho recuperato la consapevolezza della mia ignoranza e delle mie incapacità. Credo di avere ancora moltissimo da imparare e purtroppo, alla mia età, non avrò il tempo per capire molte cose, ma certo l’idea di giudicare la terrò a freno.

Quanto a papa Francesco, non posso negare che, pur sentendomi radicalmente laico, ascolto con la massima attenzione quello che dice e cerco di farne tesoro. Ho anche io l’impressione che abbia riportato il cattolicesimo a valori più autenticamente evangelici. Il cattolicesimo non è o non dovrebbe essere un’ideologia. Direi che è un papa che ha atteggiamenti sostanzialmente laici e condivisibili da molte persone di buon senso anche fuori dalla chiesa cattolica, ha indubbiamente coraggio. Non posso negare che, specialmente negli ultimi mesi, sono rimasto molto colpito dal fatto che Francesco non sottolinei mai le divisioni ma cerchi la collaborazione degli uomini d buona volontà per fare tutti insieme qualcosa di buono e di concreto. Effettivamente papa Francesco non ha giudicato ma ha cercato di perseguite il bene impegnandosi per le periferie del mondo. Mi dispiace solo che sia ormai un uomo anziano perché la sua presenza potrebbe essere archiviata rapidamente dopo la sua uscita di scena e sarebbe veramente un danno per tutti, cattolici e no. Beh, credo che si capisca abbastanza bene quello che penso di papa Francesco.

Paolo, ti ringrazio veramente moltissimo della tua “provocazione”! Magari ci fossero tante provocazioni di questo tipo!

Project

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