UNA COPPIA INTERGENERAZIONALE DI INGEGNERI GAY

Ciao Project,

leggo regolarmente il forum, ma tu non rispondi mai, lasci che lo facciano gli altri. I pochissimi che lo fanno lo fanno magistralmente ed è già qualcosa. Aggiungo solo che una risposta, almeno privata, me la devi.

Ho 47 anni, vedo avvicinarsi a grandi passi la cinquantina, l’età limite, un po’ la resa dei conti di noi gay, lo spartiacque tra quelli che sono ancora alla ricerca, se si può dire così, e quelli che ormai hanno fatto fallimento, almeno nella vita affettiva. So che è solo una data simbolica ma la vedo avvicinarsi con una certa ansia.

Non posso dire di non aver fatto esperienze, anzi ne ho fatte probabilmente troppe, qualcuna pure travolgente, che alla fine mi ha lasciato travolto come se mi fosse passato sopra un tir, ma adesso è tutta acqua passata da un pezzo, poi ho avuto qualche anno in cui mi sentivo assolutamente refrattario a qualsiasi tipo di storia, ho avuto ragazzi e non più ragazzi che con me ci hanno provato seriamente ma proprio non mi dicevano niente, parlavano troppo o troppo poco o di cose che non mi interessavano, e non mi attraevano nemmeno sessualmente. Ma questo periodo di indifferenza affettiva non è stato inutile. ho lavorato tanto, mi sono laureato con un immenso ritardo ma ci sono arrivato e mi sono trovato un lavoro migliore, con i ragazzi, comunque, avevo già 5 anni fa la chiara impressione di avere chiuso la partita.

A quarantadue anni, l’anno in cui mi sono laureato, ho conosciuto per puro caso all’università un ventiquattrenne, che qui chiamerò Luca. All’inizio dell’anno accademico lo avevo notato subito per due ragioni, prima di tutto era l’unico bel ragazzo del gruppo e poi perché oltre ad essere classicamente bello, aveva una faccia intelligente, che lasciava sperare bene, cioè mi era pure simpatico. I primissimi giorni ci si salutava a distanza ma niente di più. Io mi ero preso due anni di pausa dal lavoro (in pratica non ero pagato) per portare a termine gli studi e vivevo dei miei risparmi cercando di spendere il meno possibile.  

Con Luca ci siamo conosciuti chiacchierando durante gli intervalli tra le lezioni, anche lui doveva laurearsi, ma lui era perfettamente in regola con gli studi, anzi, era uno dei pochissimi in regola con gli studi, mentre io mi sentivo proprio vecchio e andavo avanti con la forza della disperazione in una situazione che per me era chiaramente imbarazzante: dovevo per forza arrivare alla laurea, altrimenti avrei buttato via due anni senza concludere niente e l’atmosfera del fallimento sarebbe diventata oppressiva. Insomma, mi capita una cosa assolutamente inattesa e che io avevo desiderato molto, ci mettono nello stesso gruppo di studio, perché nella nostra facoltà alcuni esami si preparano in gruppo, svolgendo ciascuno un parziale di un progetto complessivo. Nel gruppo siamo in quattro: io, Luca, Letizia e Carmen. Letizia e Carmen sono amiche e si conoscono da anni, ma sono in lieve ritardo con gli studi (un paio d’anni). Il professore ci assegna il tema del progetto e ci dice che abbiamo circa due mesi per elaborarlo.

Come era inevitabile ci incontriamo la prima volta in un bar vicino all’università per organizzare il lavoro. Letizia e Carmen cominciano a farmi mille domande, sono parecchio impiccione, mi chiedono se sono sposato, se ho una ragazza e io mi sento in imbarazzo, vedo Luca che fa strane facce, non capisco se per le domande fuori luogo o per le mie risposte impacciate, poi fa cenno di andare al sodo e di pensare al lavoro che dobbiamo fare, ma le ragazze mi fanno comunque un’ultima domanda sulla ragione del mio enorme ritardo negli studi e si tranquillizzano relativamente quando dico che lavoro da diversi anni, e allora cominciano a fare mille domande a Luca, che indubbiamente è una persona molto più interessante di me, ma lui non si fa coinvolgere, le guarda con faccia scocciata, non risponde, taglia corto e dice: “Ragazze, stiamo qui per organizzare un progetto di studio, quindi cerchiamo di non perdere di vista l’obiettivo…” Già questo suo modo di affrontare il problema mi era piaciuto (molto meno imbranato del mio!). Le ragazze erano un po’ piccate, capivano di essere state zittite, anche se educatamente. Luca non faceva chiacchiere. Vedendo che la cosa andava per le lunghe tra silenzi e imbarazzi, a un certo punto ha detto: “Facciamo così, adesso ci pensate e ci rivediamo mercoledì dopo la lezione e così lavoriamo su qualcosa di concreto”, poi si è alzato. Le ragazze erano stranite, direi stizzite, hanno salutato più per educazione che per simpatia e se ne sono andate, Luca mi ha chiesto se volevo un passaggio e io gli ho detto ovviamente di sì.

Luca guida con la massima prudenza, mentre mi accompagna a casa parliamo solo del progetto e capisce subito che lavoro in un settore che è proprio quello del nostro corso di laurea, parliamo di cose tecniche e lui mi dice che si vede che ho la competenza di quelli che nel settore ci lavorano, quando arriva sotto casa mia mi dice: “Se ti va domani ci vediamo e abbozziamo il progetto.” Gli chiedo: “Con le ragazze?” Mi risponde: “No! Altrimenti non facciamo nulla!” Allora lo invito a venire da me, mi dice che va bene e che per l’orario lo decideremo l’indomani a lezione. Ci salutiamo senza darci la mano, io scendo dalla macchina e lo saluto agitando il braccio, lui non risponde al saluto, penso che forse sta attento alla guida o forse del mio saluto non se n’è nemmeno accorto.

A casa mi sentivo gasatissimo, non tanto per il progetto da sviluppare ma perché lo avrei sviluppato con Luca, il ragazzo più bello che avevo visto negli ultimi anni e mi sembrava pure intelligente, ma di più non sapevo.

Il giorno appresso è venuto a casa mia, temevo che si intrufolasse un po’ dappertutto, come altri ragazzi avevano fatto, ma non è successo niente del genere, siamo stati sempre nella stanza dove lavoro e abbiamo parlato solo del progetto, anzi, non direi che abbiamo solo parlato, mi ha chiesto se avevo il CAD e si è messo al computer, non c’è bisogno di dire che era molto più bravo di me, tanto che io ho potuto imparare da lui alcuni trucchetti che non conoscevo. Alla fine del pomeriggio, una bozza concreta del progetto era già fatta, molti aspetti di dettaglio restavano da definire, anche di quelli importanti, ma l’idea di base c’era e sembrava accettabile sia a lui che a me. Finito il lavoro, l’ho invitato a restare per la cena ma non ha accettato e mi ha detto: “Oggi non posso, magari la prossima volta…”

Luca era un ragazzo bellissimo ma parlava solo di lavoro, direi che era un eccellente collega di lavoro ma non era un amico e di lui non sapevo nulla. Mi ero permesso di chiedergli in che materia stesse facendo la tesi e avevo scoperto che la faceva nella stessa materia in cui io stavo facendo la mia e in un argomento molto vicino al mio. Mi ha detto che si sarebbe potuto sviluppare insieme un software specifico per risolvere alcuni problemi di calcolo molto rognosi e mi ha fatto vedere come, anche se tenendosi ovviamente molto sulle generali. Lui ha visto che io ne capivo e che lo seguivo benissimo e mi ha detto: “Ci potremmo lavorare insieme?” Io gli ho detto solo: “Certo! E verrà una cosa mostruosamente ben fatta!”

Il mercoledì dell’incontro con le due ragazze, la mattina, abbiamo saputo che Letizia e Carmen avevano chiesto al professore di passare ad un altro gruppo, un gruppo di 3 ragazze, che così diventavano 5. Luca mi ha guardato e ha detto semplicemente: “Beh, così perdiamo meno tempo e lavoriamo meglio!”

Il lavoro andava avanti alla grande, ma era solo lavoro e aveva l’aria che sarebbe rimasto solo lavoro fino alla fine, però le cose non sono andate esattamente così. Io davo per scontato che Luca fosse etero, fosse un etero forse al momento più interessato ai progetti che alle ragazze, ma comunque etero, non parlava mai di ragazze ma non parlava di cose private a nessun livello. Un giorno, un paio di settimane prima degli esami, finita la lezione mi dice: “Domani mi invito a pranzo a casa tua perché è il tuo compleanno, ok?” Io gli dico: “Benissimo! Ma come fai a saperlo?” E mi risponde: “Io so molte più cose di quello che credi… ma ne parliamo domani.”

Quella frase per me era sconvolgente. Sapeva in che giorno sono nato e mi diceva che sapeva molto più di quello che io potessi immaginare. Pensai che magari lui avesse conosciuto qualcuno dei ragazzi coi quali ero stato, ma la cosa mi sembrava improbabile, perché erano tutti molto più grandi di lui. Poteva sapere che ero gay? E da chi lo avrebbe saputo? All’università non lo sapeva nessuno. La notte non ci ho dormito. La mattina, già mezzo rincitrullito per la notte in bianco, ero tanto in agitazione che della lezione non ho seguito nulla. Poi siamo andati a casa mia e lui ha tirato fuori dalla borsa un pacchetto e me lo ha dato. Non c’era biglietto, ma solo il pacchetto, lo apro e dentro c’è una chiavetta di memoria per computer, lo ringrazio, e lui mi dice: “Dentro c’è la bozza del programma di cui abbiamo parlato, ci sono ancora tante cose che non sono soddisfacenti e adesso ti devi dare da fare perché questa è più competenza tua che mia!” Metto la chiavetta nel computer e passiamo tutto il pomeriggio e buona parte della serata a cercare di sistemare le cose in sospeso, ma non ci riusciamo. I risultati sono insoddisfacenti. Gli dico: “Lasciami la chiavetta un paio di giorni, che ci lavoro sopra, una mezza idea di come fare ce l’ho ma ci devo lavorare…” Ci salutiamo e lui se ne va.

Nota, Project, che il pomeriggio era stato un esaltante pomeriggio di lavoro, ma niente di più, ero stato in ansia aspettandomi che lui mi dicesse chissà quali segreti su di me e invece non era successo niente del genere, io mi aspettavo un regaletto, e invece era un lavoro da fare, però mi ero reso conto che, almeno sul lavoro, ci capivamo perfettamente. Poi, visto da vicino, Luca era proprio bellissimo, certo avere un ragazzo come Luca sarebbe stato bellissimo, ma anche avere un collega di studio e magari di lavoro come Luca non era certamente una cosa da poco. Non lo volevo deludere! Mi sono messo a lavorare sul programma come se aspirassi al Nobel e alla fine ho trovato la soluzione seguendo procedimenti matematici più evoluti di quelli seguiti da Luca. L’indomani gli porto la chiavetta col programma funzionante. Mi guarda negli occhi e mi dice: “Sei un genio! Ma ci sai proprio fare alla grande!”

Arriva il giorno degli esami e andiamo insieme ad illustrare il progetto, gli elaborati grafici sono da urlo, non c’è bisogno di dire che gli esami sono andati nel modo migliore possibile, ma in un certo senso noi lo davamo per scontato.

Dopo quell’esame avevamo ancora da perfezionare il programma di calcolo, ma l’informatica non era proprio il suo forte e il lavoro in pratica l’ho fatto da solo e gliel’ho portato già fatto, gli ho spiegato passo per passo tutto quello che avevo fatto e lui mi ha detto che valeva la pena di presentarlo al professore, cosa che abbiamo fatto, abbiamo detto che lo avevamo fatto insieme e che intendevamo usarlo per le nostre tesi. Il professore ha detto che era un lavoro molto originale e lo ha apprezzato.

In pratica, dopo queste belle cose, io non avrei avuto più niente da spartire con Luca e la cosa mi metteva di cattivo umore, pensavo che lo avrei perso, ma non è successo. Non si faceva sentire spesso, ma qualche volta mi chiamava e mi veniva a trovare, parlavamo delle nostre tesi, ma anche d’altro e piano piano tra di noi si è creata una strana amicizia, oggettivamente molto dissimmetrica, perché lui aveva 18 anni meno di me, ma la differenza di età sembrava non avere nessun peso, in fondo era un’amicizia e niente di più, anche adesso che ci conoscevamo un po’ meglio non c’era mai spazio per discorsi che entrassero troppo nel privato.

Ci siamo laureati lo steso giorno e abbiamo festeggiato soltanto tra noi. Lui ha trovato subito lavoro, io ci ho messo un po’ di più ma poco. Ero contento di essermi laureato anche se ero in età non dico da pensione ma certo non da primo lavoro, però ero triste di perdere Luca. Ma Luca non è sparito e anzi i nostri contatti si sono fatti più frequenti.

Non avevo mai visto Luca con una ragazza e lui non aveva mai parlato di ragazze, ma nemmeno di ragazzi, però io cominciavo a pensare che fosse gay e che con me si sentisse a suo agio e questo da un lato mi incoraggiava ad andare avanti e dall’altro mi frenava e mi creava una marea di problemi. Ho vissuto giornate molto difficili in quella situazione, che comunque era ancora soltanto un’ipotesi.

Poi un giorno viene a casa mia e non si siede sulla poltrona come faceva di solito ma viene a sedersi accanto a me sul divano e mi chiede: “Posso appoggiarmi a te?” Ovviamente io gli dico di sì e lui mi spiazza e mi dice: “Io non ho mai fatto sesso con nessuno e la prima volta voglio che sia con te.” Io, in fondo me lo aspettavo, gli ho preso la mano destra e gliel’ho stretta con forza, poi gli ho detto: “Tu non sei mai stato con nessuno, io invece sì e sarebbe meglio che prima facessi il test.” Lui mi ha detto: “Lo facciamo insieme, così stai più tranquillo anche tu.” E lo abbiamo fatto: eravamo entrambi negativi.

È successo quello che doveva succedere. Alla fine mi ha detto: “Mi sono sentito a mio agio, è stata una cosa bella, non so come andrà a finire ma è stata una cosa bella!” Io gli ho detto che anche io ero stato bene ma che mi sembrava di essere un ladro della sua giovinezza. Lui mi ha detto: “Non ti fare complessi, io preferisco stare con uno della tua età, i coetanei mi interessano meno, e francamente credo di aver fatto la cosa giusta. Poi magari le cose cambieranno, ma adesso è così.”

In questo modo è cominciata la nostra relazione. Devo dire che la fase dei complessi è durata poco, lo vedevo molto coinvolto e la complicità tra noi era totale, c’era una cosa, però, che mi metteva in crisi, lui voleva anche uscire con me, non capiva perché io cercassi di tenere la nostra relazione strettamente privata. Ho dovuto dirgli che mi sentivo in imbarazzo e lui sul primo momento l’ha presa male, come se io mi vergognassi di lui e io ho avuto paura che la nostra storia potesse essere arrivata al capolinea, poi, un po’ a malincuore, ha finito per accettare e per capire il mio punto di vista e la questione è stata superata.

Per me, in teoria, il rapporto con Luca avrebbe dovuto rappresentare la realizzazione di un sogno, ma non è stato così. Gli volevo bene e molto, ma mi sentivo profondamente in colpa e lui se ne accorgeva e pensava che io volessi troncare, siamo stati più volte sul punto di mandare tutto in rovina ma alla fine non è successo. Proprio in quel periodo ho scoperto Progetto gay, e ho letto nel manuale (Essere gay) il capitolo sui rapporti intergenerazionali, per me è stato illuminante, ci ho ritrovato esattamente quello che è successo tra me e Luca e tutta la dinamica della faccenda mi è sembrata molto più lineare. Non posso dire di aver messo da parte le mie ansie e i miei dubbi, ma ho potuto capire quello che poteva passare per la mente di Luca.

Cerco sempre di dirgli e di ripetergli che deve sentirsi libero comunque e che il volersi bene non è mai un vincolo, ma quando glielo dico mi guarda con una faccia arrabbiata e mi dice: “Ancora questi discorsi? Falla finita!” e questo mi piace molto. Adesso abbiamo in progetto di andare a vivere insieme, ma il problema dei rapporti sociali e della gente che vede c’è eccome. Una via sarebbe andare a vivere fuori città, cioè proprio in campagna, che forse sarebbe l’ideale, ma poi, per il lavoro, sarebbe un problema enorme, o si potrebbero comprare due appartamenti da rendere comunicanti, o magari due appartamenti anche in stabili diversi, che forse sarebbe pure meglio, ma molto vicini, tipo 50-100 metri uno dall’altro.

Ma penso che il problema più grosso sarebbero i suoi genitori, che abitano nella nostra città e che magari potrebbero venire a trovarlo quando meno se lo aspetta. E poi i suoi genitori sono molto all’antica e di Luca non sanno nulla e si aspettano che adesso, dopo la laurea e il lavoro, arrivino automaticamente il matrimonio e i figli. Che cosa direbbero se invece scoprissero che Luca convive con uno che ha quasi vent’anni più di lui? Se avessimo due appartamenti comunicanti, magari con una porta scorrevole accessibile dall’interno di un armadio sarebbe ancora meglio! Certe volte parto in quarta con idee da James Bond e da spie di altri tempi! Comunque lui i suoi genitori li teme. La madre ha solo quattro anni più di me, il padre sette! Confesso che sono ancora complessato da queste cose e oscillo molto tra lo sperare che la convivenza si concretizzi rapidamente e l’idea che qualcuno, intendo un suo coetaneo, possa arrivare a portarmelo via, certe volte penso che questa sarebbe la soluzione migliore, ma alla fine vedo questa ipotesi molto lontana dalla realtà.

Ho paura che se ne possa andare da un momento all’altro ma in un certo senso penso che sarebbe la soluzione migliore, e poi ho paura del futuro perché io sono ancora in buone condizioni ma gli anni passano e la paura di diventare solo una zavorra c’è eccome, e questo è il motivo di fondo per cui tendo a frenare un po’ sull’idea di andare a vivere insieme. E poi che cosa potrebbe raccontare ai genitori. Lui vive da sempre coi genitori, anche adesso che lavora vive a casa dei genitori, come potrebbe motivare l’idea di andarsene a stare per conto suo nella stessa città? Non avrebbe proprio senso! E se poi uscisse fuori che il motivo sono io mi posso immaginare il casino che ne verrebbe fuori. Adesso io e Luca siamo molto uniti, anche perché di fatto lui non ha amici e io per lui sono il suo “ragazzo” ma anche il suo amico, praticamente l’unico. Al momento va tutto bene, ci vediamo ogni due o tre giorni il pomeriggio a casa mia compatibilmente coi nostri orari di lavoro e stiamo bene, ma è rarissimo che possiamo passare una notte insieme. Mi sento tra color che son sospesi, Project, mi sento vivo, certamente molto più di prima, ma anche caricato di responsabilità perché mi sento anche un po’ papà, penso che devo dare un esempio positivo e ci provo con tutto me stesso.

Non siamo una coppia da romanzo di appendice, no! Ci vogliamo bene, ma discutiamo spesso, anche molto animatamente, lui non è minimamente remissivo, io in genere lo seguo senza discutere troppo, ma le rare volte che non lo faccio lui mi lascia strada libera e mi ascolta. Insomma siamo ormai incamminati nella strada della convivenza, che ci si arrivi o meno non è affatto scontato. Tutto questo mi è capitato quando io avevo già gettato le armi! La vita riserva sorprese inimmaginabili e ti stupisce, ti rendi conto che per qualcuno la tua vita ha un senso e un valore e capisci che a quasi 50 anni si può vivere una vera storia d’amore. Project, so che questa frase suona molto ingenua e ben poco adatta ad un quasi cinquantenne, ma è proprio quello che penso in questi giorni.

Ricordati che aspetto la tua risposta!

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Se volete, potete partecipare alla discussione di questo post aperta sul Forum di Progetto Gay:

http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=22&t=6997

MEDICO E PAZIENTE ENTRAMBI GAY

Caro Project,
sono un uomo che ha passato da pochissimo i 60 anni e vorrei raccontarti la mia storia perché penso che potrebbe aiutare qualcuno a prevenire la malinconia. Ho sempre saputo di essere gay ma nello stesso tempo ho sempre saputo che “per me” essere gay sarebbe stato un motivo in più di solitudine. Sono figlio unico e miei genitori sono morti da diversi anni, ho passato praticamente tutta la vita da solo a lavorare e a sognare un amore che, più passavano gli anni, più si allontanava in una nebbia evanescente. Il mio lavoro mi ha tenuto compagnia e mi ha impedito di scivolare nella depressione, è un lavoro che mi piace e che mi permette di tenermi in contatto con tanta gente giovane, anche se col passare degli anni il contatto con la gente giovane, che comunque è formale, può essere anche deprimente. Mi sono costruito un po’ di sicurezza economica e ancora dovrò lavorare per qualche anno prima di andare in pensione . Non ho mai visto la pensione come una liberazione o un miraggio, perché ho sempre pensato che dopo sarei stato anche peggio.

Tre anni fa ho avuto dei problemi di salute piuttosto seri e sono stato ricoverato per un lungo periodo. Allora non c’era il covid, ma il mio male non era di quelli di minor conto. L’ospedale, che poteva scrivere l’ultimo capitolo della mia vita, è stato invece la svolta che mi ha permesso di cambiare le cose. Un medico del reparto, allora poco più che quarantenne venne a visitarmi subito dopo il ricovero. Ricordo che ne fui molto colpito, era sorridente, cercava di comunicare sentimenti positivi e nello stesso tempo non si poneva nel ruolo professionale formale del medico. Ricordo che fin dal primo momento mi risultò simpatico e cercai di farglielo capire. Lui si sedette accanto a me e cercò di arricchire il più possibile la cartella clinica, mi fece domande e prese molti appunti. Mi disse che mi avrebbero fatto una risonanza magnetica per definire meglio la diagnosi. Non mi disse banalità né formule generiche di incoraggiamento. Qualche giorno dopo la mia situazione peggiorò. Gli altri medici si erano defilati e non li vedevo più, il che un po’ mi impauriva, perché pensavo che la mia situazione potesse apparire a loro senza speranza. Lui (lo chiamerò Pietro) no, si faceva vedere anche tre o quattro volte al giorno.

La mia situazione è stata molto incerta per un lungo periodo, ma lui non è mai sparito. Un giorno, dopo oltre 40 giorni di ricovero, si presenta da me e mi chiama per nome e mi dice: “Paolo, mi permette di darle del tu?” io gli ho risposto: “Certo! Per me è un piacere.” E poi continua: “Ti volevo dire che le cose stanno andando meglio, che abbiamo cambiato terapia e le cose sono significativamente migliorate e che, secondo me, le fasi critiche non si dovrebbero ripresentare. Ci vorrà qualche altra settimana ma potrai tornare a casa probabilmente prima di Natale.” Poi mi ha preso la mano e me l’ha stretta fortissimo, un gesto che non è da medico ma da amico. Io non sapevo che cosa pensare, mi sentivo stralunato, molto sottosopra, un po’ per il fatto che non mi aspettavo che le prospettive della malattia potessero migliorare e un po’ per la presenza di Pietro. Il 16 dicembre successivo sono uscito dall’ospedale. Pietro mi aveva chiesto se qualcuno mi sarebbe venuto a prendere ma gli ho detto che non avevo nessuno e lui mi ha risposto: “Allora ti porto io, perché non puoi andare in giro da solo.” Ho aspettato le 22.00, cioè la fine del suo turno di lavoro e lui mi ha riportato a casa e lo ha fatto con moltissima cura per non farmi prendere freddo.

Ovviamente è rimasto a casa mia, ha arieggiato la casa senza farla raffreddare troppo, mi ha preparato il letto mi ha aiutato a mettermi al letto ed è rimasto a dormire sul divano. Io ho provato a insistere perché tornasse a casa sua ma mi ha detto che viveva solo, e lì mi si è accesa una lucina nel cervello e ho cominciato a considerare la cosa sotto un’altra prospettiva. Almeno per la prima settimana io non sarei stato in grado di fare le faccende da me e ci ha pensato lui, poi però ho cominciato a riacquistare le forze e dopo qualche altro giorno ero ormai in grado di fare da solo, ma si era creata una situazione così gradevole e per niente forzata o falsa, che gli ho proprio detto che se fosse rimasto da me io ne sarei stato contento. La mia casa è grande anche per due, lui avrebbe avuto due stanze per sé, una camera da letto e uno studio. Lui mi disse: “Per un periodo è bene che io stia qui, poi vediamo come vanno le cose.” Non era ben chiaro se si riferisse alla malattia o ai nostri rapporti, ma la seconda ipotesi mi sembrava più probabile. Mi ha assistito proprio a livello medico come se io fossi in ospedale, mi ha programmato una serie di controlli, è stato un po’ il mio angelo custode.

La sera, quando non era di turno, lui cucinava e mentre cucinava parlavamo e l’atmosfera era proprio distesa. La nostra storia è cominciata così, senza colpi di fulmine, senza nulla di travolgente. Uno da giovane si fa mille idee su quello che potrebbe essere una storia gay, ma non arriverebbe mai a pensare quello che invece è successo. Non so se queste cose si chiamano amore, amicizia o in qualche altro modo ma stavamo bene insieme. Lui aveva l’ospedale e i suoi orari parecchie volte erano imprevedibili. Quando pensava che avrebbe fatto un grosso ritardo mi chiamava per non farmi preoccupare. Io gli preparavo la cena e lo aspettavo senza limiti di orario, certe volte rientrava a casa stanchissimo, ma appena entrato in casa mi sorrideva, lo faceva sempre, anche quando non si reggeva in piedi, io mi sedevo accanto a lui e gli passavo i piatti con le cose da mangiare. L’ho visto salire e scendere sulle montagne russe dell’entusiasmo e della peggiore frustrazione seguendo l’andamento di alcuni suoi malati. Per lui non era un lavoro, partecipava alla vita di quella gente, si impegnava con tutte le sue forze e lo ammiravo per questo. Non si può amare una persona che non si stima e lui per me era un esempio da seguire, un esempio di moralità, di impegno senza riserve.

Noi non ci siamo mai detti che eravamo gay, non ce n’è mai stato bisogno. Tante volte, a casa passava le ore a studiare. Ci sono medici che considerano la loro missione soltanto come una fonte di reddito, lui era uno scienziato, ma non per amore della scienza, ma perché aggiornandosi e impegnandosi professionalmente poteva fare qualcosa di buono per il prossimo. Non l’ho mai visto ridere, sorridere sì, anzi era un suo modo tipico di comunicare. Non l’ho mai sentito fare pettegolezzi o criticare qualcuno dei suoi colleghi. Un giorno torna a casa tardi si siede a tavola e mi dice: “Stai qui. Ti devo parlare di una cosa.” Gli ho detto: “Ci sono problemi?” Lui mi ha risposto: “Niente che non si possa risolvere.” Poi mi ha detto che una signora di 87 anni sarebbe stata dimessa dall’ospedale dopo una lunghissima degenza prima in RSA e poi in ospedale e non aveva una casa dove andare perché era stata sfrattata, anche perché del tutto incapace di difendersi legalmente. Poi mi ha detto: “La possiamo fare stare qui finché non si trova un’altra soluzione?” Io l’ho guardato e gli ho sorriso facendo cenno di sì con la testa, poi ho aggiunto: “… anche se non si troverà un’altra soluzione.” Lui mi ha abbracciato forte.

L’indomani è arrivato con la signora in sedia a rotelle. Io avevo preparato la stanza. La signora si è messa a piangere, ci stringeva le mani e non le lasciava più. Era una donna anziana magrissima ma con occhi scintillanti azzurro chiaro. Abbiamo fatto di tutto per farla sentire a suo agio, lei all’inizio era imbarazzata, poi quando ci siamo messi a tavola tutti e tre, si è messa a piangere un’altra volta e Pietro le ha preso una mano e gliel’ha baciata e le ha detto: “Stai tranquilla, Lina, che qua starai bene. Il mio amico è un uomo come si deve, la casa è sua e lui ha detto che puoi stare qui finché vuoi. Ma adesso cerca di mangiare un po’ che sei magra magra, perché ti sei asciugata in tutto il tempo che hai passato in ospedale.” Dopo pranzo Lina è andata in camera a riposare un po’ e io sono rimasto con Pietro, che mi ha accarezzato una guancia col dorso di una mano e mi ha detto: “Io avevo capito chi eri fin dall’inizio e non mi sono sbagliato.”

Ho chiesto a Pietro della situazione pensionistica di Lina e mi ha detto di chiedere direttamente a lei e che nella valigia che aveva con sé c’erano anche tutte le sue carte e le sue cose. Nel tardo pomeriggio Lina si è svegliata, era un po’ disorientata, ma quando ci ha visto ha riconnesso tutto, abbiamo preso insieme il tè con qualche biscotto e poi le ho chiesto della sua pensione e di altre cose. Io ho lavorato tanti anni all’INPS e di cose amministrative me ne intendo. Ho detto a Pietro che Lina non aveva l’”accompagno” e ne avrebbe avuto il diritto, almeno secondo me, e che guardando bene avrebbe avuto diritto anche ad altro. Pietro ha detto: “Certo!” Insomma, i successivi otto giorni sono serviti a Pietro per raccogliere tutta la documentazione medica da portare all’INPS e a me a prendere contatti col patronato per fare tutte le pratiche. Dopo qualche giorno, in realtà pochi giorni, è arrivata per Lina la chiamata dell’INPS alla visita di controllo e l’abbiamo accompagnata. Lei era molto ansiosa. Pietro la teneva per mano e le diceva: “Lina, stai tranquilla che è tutto a posto.” Io ho aspettato in anticamera e Pietro è entrato con Lina ed è rimasto dentro quasi un’ora. Quando sono usciti, Lina era molto ansiosa, Pietro apparentemente no, per tenere Lina tranquilla.

A casa le cose sono tornate alla normalità e Pietro mi ha detto in separata sede che non era certo che Lina avrebbe avuto l’invalidità al 100% e che comunque bisognava aspettare la risposta ufficiale. Ma fortunatamente, dopo due settimane, la risposta è arrivata e ha fugato gli ultimi timori. In sostanza oltre l’accompagno Lina avrebbe ottenuto anche altri benefici economici, piccole cose certo, ma in pratica le sue entrate mensili sarebbero più che raddoppiate. Pietro lo ha detto a Lina e le ha detto che dovevano andare alla posta per richiedere una postepay, per ricevere i pagamenti da parte dell’INPS. Due giorni dopo ci siamo andati e Lina ha fatto la carta. Quando le è arrivato il primo pagamento la prima cosa che ha detto è che la metà la voleva dare a certe suore missionarie che hanno una loro casa vicino a dove abitava lei, qualche giorno dopo abbiamo accompagnato Lina dalle suore che non volevano la donazione perché sapevano che Lina aveva pochissimo denaro, ma lei e pure noi abbiamo insistito e alla fine hanno accettato.

Quando siamo rientrati a casa, io ho fatto una carezza a Lina e le ho detto: “Sei proprio una brava donna! Sei come una mamma.” E lei si è messa a piangere. Col passare del tempo Lina ci ha raccontato la sua storia che era una storia terribile, lei era una profuga giuliana e aveva conosciuto la miseria pure da bambina. I genitori avevano perso tutto quello che avevano ed erano riusciti a uscire dalla miseria nera solo negli anni ’60. Lei aveva lasciato gli studi e non si era sposata ed era finita a fare la servetta presso una famiglia ricca di Milano e così aveva potuto sopravvivere, ma nessuno le aveva mai spiegato che avrebbe avuto diritto ad avere i contributi pagati per farsi una pensione. I contributi non furono mai pagati, ma lei non sapeva nemmeno che cosa fossero e così anno dopo anno era arrivata all’età della pensione senza avere una pensione. L’assistente sociale le aveva fatto avere una “pensione minima” e tirando la cinghia arrivava a pagare un minimo affitto e ad avere una piccolissima casetta. Poi si era ammalata e tutto era precipitato nel baratro. A casa qualche volta andavano le suore ad assisterla, ma dopo il ricovero era rimasta completamente sola.

Pietro le misurava ogni giorno la pressione e la glicemia perché aveva un po’ di diabete e ogni settimana le faceva l’ECG con un apparecchio portatile. Abbiamo provato a portare Lina ad un negozio per comprare un po’ di abbigliamento, ma non voleva spendere soldi e diceva che c’erano quelli che avevano più bisogno di lei e non è voluta venire e allora siamo andati noi a comprare qualcosa che ci sembrava adatto e le abbiamo portato una scatola con due vestaglie calde, due paia di babbucce per tenere in caldo i piedi, della biancheria e poi un vestito per uscire e un cappotto pesante con una lunga sciarpa. Quando ha visto tutta quella roba si è quasi arrabbiata perché diceva che lei non voleva fare la signora, che i soldi non si devono spendere in cose inutili ma in opere buone, poi ha visto che c’eravamo rimasti un po’ male e ha aperto le braccia per farsi abbracciare e dirci che comunque era contenta. Lina aveva una sua caratteristica unica, non si lamentava mai, trovava tutto ottimo, ci diceva solo cose buone.

Insomma, Project, era diventata una vita a tre, una situazione stranissima e addirittura paradossale, ma stavamo veramente bene. Un giorno Pietro mi prende da parte e mi dice che la situazione di Lina sta peggiorando rapidamente e che secondo lui non sarebbe durata molto. Lui aveva intenzione di dirglielo. Io avevo qualche perplessità ma alla fine pensavo anche io che fosse giusto così. Pietro le ha detto chiaramente come stavano le cose e lei ha risposto: “Il Signore dà e il Signore toglie, ma io ho tanta fede e so che Lui mi aspetta. Non state tristi.” Ha voluto andare in chiesa per confessarsi e fare la comunione, poi siamo tornati a casa e si è fatta dare carta e penna per scrivere che tutti i suoi beni dovevano andare alle suore missionarie e poi si è seduta tranquilla come se fosse un giorno come tutti gli altri. Siamo andati avanti così per altri 10 giorni, poi Pietro l’ha fatta ricoverare almeno come sostegno al dolore e dopo una settimana Lina se ne è andata tenendoci per mano e recitando un’Ave Maria. A me è venuto un accesso di pianto fortissimo. Pietro mi ha abbracciato ed è scoppiato a piangere pure lui.

Ecco, Project, questo è accaduto poco più di due anni fa, quando il covid non esisteva ancora. Adesso esiste e Pietro se ne è tornato a vivere a casa sua, ma non perché tra noi qualcosa è venuto meno ma perché, lavorando in ospedale, e proprio in un reparto covid, teme di mettere me in condizioni di rischio serio. Ci sentiamo ogni giorno, ma mi manca moltissimo la sua presenza, adesso siamo una coppia telematica ma ci vogliamo bene come prima, e se possibile più di prima. Non sono mai andato a letto con Pietro, può darsi che prima o poi succeda, ma è proprio l’ultimo dei miei pensieri. Adesso le mie preoccupazioni sono tutte legate al fatto che lui possa prendere il covid e possa stare veramente male. Non è nei gruppi di età a maggior rischio ed è stato anche vaccinato, e questo mi tranquillizza molto. Certe volte lo vedo stanchissimo, proprio disfatto dalla fatica fisica e dall’ansia. Quando non è tranquillo parliamo al telefono e mi dice che solo sentire la mia voce riesce a dissipare tutte le sue malinconie. È la storia di una relazione gay questa? Io penso proprio di sì. Noi abbiamo un mondo in comune, qualche volta ne parliamo e penso che questa identità gay conti moltissimo sia per lui che per me, in pratica per qualche anno abbiamo avuto un progetto di vita in comune e ancora lo abbiamo. Non so perché succedono certe cose, so solo che ti cambiano la vita quando meno te lo aspetti.

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RICORDI DI UNA COPPIA GAY

Caro Project,
mi chiamo Mario, sono un 74enne romano che ha visto morire il suo compagno, dopo aver cercato di fare di tutto per salvarlo, ma i medici e lui stesso erano consapevoli di come sarebbe finita. È stata una cosa molto breve, che è durata in tutto 31 giorni. Lui ha cercato di ripetermi fino alla fine che mi voleva bene e che era felice di essere stato con me. Era più giovane di me di cinque anni e quello che è successo non lo avrei mai potuto immaginare. Ormai sono passati quasi otto mesi, e ho superato le angosce dei primi momenti che mi facevano piangere da solo senza consolazione. Ora ho le sue foto, i ricordi e lui continua a vivere dentro di me. Abbiamo vissuto insieme per quasi 40 anni e in questo siamo stati fortunati, perché 40 anni fa l’idea di convivere per due uomini era un’utopia e niente altro, per noi però è diventata realtà. Quando ci siamo conosciuti io avevo 33 anni e lui ne aveva 28, ma lavoravamo tutti e due. Lui era un giovane ingegnere e io un insegnante di Inglese un po’ meno giovane. A quel tempo io davo per scontato che non avrei mai avuto un compagno e vivevo ancora a casa dei miei genitori. Io non ero mai andato d’accordo coi miei genitori, che comunque non sapevano della mia omosessualità (e non mi è mai passato per la mente di aprirmi con loro). Non andavamo d’accordo soprattutto per ragioni politiche, mia madre era democristiana anche e soprattutto perché non leggeva i giornali e non capiva niente di politica, mio padre poi viveva ancora nel mito del ventennio e per lui i partiti della sinistra erano come il fumo negli occhi. Avevamo cominciato a provare reciproca insofferenza l’anno prima, al tempo del rapimento e dell’assassinio di Moro. Mio padre per un verso odiava le brigate rosse ma per un altro verso odiava pure Moro per le sue aperture ai comunisti, e verso Moro usava espressioni dispregiative della peggiore specie. Mia madre mi diceva che l’unica cosa che si poteva fare era pregare e comunque non avrebbe mai capito il doppio gioco di tanti democristiani che non sopportavano Moro e sostenevano la linea della fermezza. A me Moro piaceva molto, ho sempre pensato che fosse un uomo onesto che non agiva per interesse personale. E così la storia di Moro è stata anche il tracollo degli equilibri della mia famiglia. I miei genitori hanno cominciato a considerarmi comunista ormai irrecuperabile al loro classico buonsenso-opportunismo piccolo borghese. In pratica anche io, pure se non posso dire che avevo cominciato ad odiare mio padre, certamente ero arrivato alla conclusione che tra noi non ci sarebbe mai stato nessun possibile discorso serio e sulla base di questo, feci d’impeto domanda di trasferimento per andare a insegnare in un’altra provincia e non dissi nulla a casa. Una volta inviata la domanda, mi pentii di averla inviata, ma ormai non potevo tornare indietro, però consideravo piuttosto remota la possibilità di ottenere realmente il trasferimento. Invece alla fine dell’estate del ’78 venni a sapere che ero stato trasferito e in una provincia molto lontana (Torino). Dirlo ai miei fu per me una cosa difficilissima, soprattutto perché a loro non avevo detto che avevo chiesto il trasferimento. Lo presero come un vero e proprio tradimento, una coltellata improvvisa sferrata in modo premeditato a mio padre e a mia madre. Mio padre era proprio schifato da me, diceva che si era cresciuto una serpe in seno, mia madre cercava di tenerlo buono, ma se non ci fosse stata lei, con mio padre saremmo proprio venuti alle mani. Me ne andai di casa, quando mio padre era al lavoro staccandomi a forza dagli abbracci di mia madre e promettendole che non sarei sparito e che le avrei mandato al più presto il mio nuovo indirizzo. Mancavano circa 40 giorni all’inizio dell’anno scolastico e io sono rimasto in albergo a Torino, finché non ho trovato un miniappartamento non molto lontano dalla scuola. È stato proprio a scuola che ho incontrato Carlo. La Provincia e il Provveditorato agli studi avevano in progetto la costruzione di nuovi edifici scolastici e la ditta dove lavorava Carlo aveva vinto un appalto, o qualcosa di simile, e si era deciso che si dovessero fare una serie di incontri presso la mia scuola, con i progettisti, con alcuni funzionari della Provincia, con alcuni funzionari del Provveditorato e con alcuni presidi. Il mio preside mi disse che avrei fatto parte del gruppo, il che era una manifestazione di fiducia alla quale comunque non mi potevo opporre. La prima riunione fu solo di presentazione, eravamo 14 persone, e non si fece altro che stabilire un calendario per gli incontri tecnici successivi. Io pensavo che tutti gli incontri sarebbero stati rituali come il primo ma non fu così. Nella prima riunione però io avevo notato subito l’Ing. Carlo B., che mi sembrava veramente un bel ragazzo, ma niente di più. Nel secondo incontro si arrivò a discussioni molto animate, l’Ing. Carlo B. srotolava progetti e cercava di spiegare i problemi tecnici ma poi cominciava la rissa dei però, dei ma invece, dei si potrebbe e si dovrebbe, ecc. ecc.. Erano passate le 22.00, la riunione cominciata alle 16.00 andava avanti e non dava segno di avviarsi verso la conclusione. Carlo guardava l’orologio ogni cinque minuti, poi, dopo le 23.00 smise di guardarlo. La riunione terminò alle 23.30. Se ne andarono tutti perché avevano le macchine parcheggiate in cortile. Lì mi accorsi che Carlo non aveva macchina e gli dissi. “Posso accompagnarla da qualche parte?” E lui mi disse che avrebbe passato la notte in albergo e che sarebbe partito in treno l’indomani mattina, perché ormai non c’erano più treni che andassero bene per lui, e fu lì che quasi istintivamente giocai le mie carte: “Se vuole andare in albergo, l’accompagno in centro, ma se per lei andasse bene potrebbe dormire anche a casa mia, è piccolina ma è a pochi minuti da qui, poi, domattina l’accompagno in stazione prima di andare a scuola.” Lui non se lo fece ripetere due volte, mi disse solo: “Ma pensa che si possa fare veramente?” Io risposi: “Certo!” Lui mi disse: “Allora grazie!” La nostra storia è cominciata così. Era dicembre, faceva un freddo cane, ma lasciai a lui il mio letto e l’imbottita e me ne andai a dormire sul divano. La mattina facemmo colazione insieme, poi lo accompagnai alla stazione, eravamo entrambi visibilmente contenti di avere rotto il ghiaccio. Lui mi lasciò il numero di telefono della casa dei genitori, io lo presi ma gli dissi che non avevo il telefono ma magari avrei potuto chiamarlo con un telefono a gettone. A scuola il preside era entusiasta di me perché non lo avevo piantato in asso e cominciò a trattarmi con un occhio di riguardo. La riunione successiva del gruppo tecnico era stata programmata di lì a un mese, dovevo soltanto attendere, ma l’attesa sarebbe stata troppo lunga, dopo nemmeno una settimana pensai di chiamare Carlo al telefono, mi preparai prima tutto il discorso da fare, un discorso molto ufficiale se avessero risposto i genitori e un discorso molto diverso e molto amichevole se avesse risposto Carlo. Decisi che l’ora ideale per chiamare sarebbe stata verso le 20.00, alle 20.00 in punto chiamai e dissi alla madre che ero il prof. Mario C. del gruppo tecnico di coordinamento dell’Istituto … , la signora mi rispose che se le avessi lasciato il mio numero mi avrebbe fatto richiamare appena il figlio fosse rientrato dal lavoro, mi sembrava brutto rispondere che non avevo il telefono e le dissi semplicemente di avvisare l’Ingegnere, che lo avrei richiamato io l’indomani. Ma l’indomani mattina fu lui a richiamarmi a scuola, perché forse pensava che ci fossero veramente dei problemi legati al gruppo di coordinamento, ma quando vennero a chiamarmi in classe perché c’era una telefonata per me in segreteria, capii perfettamente che il motivo era un altro. C’era gente e ovviamente non potevo parlare in tono troppo amichevole. Gli dissi: “Buongiorno Ingegnere!” e lui mi rispose: “Ciao Mario!” Io andai avanti a dargli del lei e lui mi rispose: “Stamattina sono a Torino e finisco verso le 11.00, ti andrebbe di pranzare insieme?” Io risposi: “Guardi era proprio quello che le avrei suggerito anche io, credo che il progetto in questo modo possa partire molto meglio!” Tre ore dopo eravamo a pranzo insieme! Ormai eravamo amici. Era evidente che c’era un interesse reciproco ma da entrambe le parti la prudenza era massima, evitavamo rigorosamente gli argomenti troppo personali, parlavamo delle nostre esperienze di studio e di lavoro, all’inizio non parlavamo di politica, non sapevo come inquadrarlo nemmeno da quel punto di vista, poi piano piano ho cominciato a notare sul suo viso qualche espressione di disappunto quelle rare volte che si parlava della democrazia cristiana, o almeno di certi politici democristiani, di altri aveva maggiore stima. Una volta parlammo anche di Moro ed era evidente che il rapimento e l’assassinio di Moro lo avevano sconvolto, anche se non era molto informato sui fatti. Piano piano abbiamo cominciato a parlare anche di politica spicciola e mi trovavo quasi sempre d’accordo con lui. Parlava del socialismo con un certo entusiasmo, non del socialismo di Craxi, ma di quello di Nenni. Discutevamo anche di letteratura, una volta mi parlò di un romanzo di Pavese, “La casa in collina”, un romanzo che io non conoscevo, ma più che parlare di partigiani e di tedeschi, si fermò sul rapporto tra Corrado, il protagonista, un professore torinese molto disincantato, e Dino, un ragazzo molto giovane, che Corrado sospetta essere suo figlio. Il rapporto tra il presunto padre e il presunto figlio, nel libro, è accennato più che chiarito. Corrado si rivede nel ragazzo, che alla fine si unirà ai partigiani, mentre lui non sarà capace di niente di simile e si richiuderà nel suo mondo interiore fatto di consapevolezze e soprattutto di rinunce. Nel romanzo, che poi lessi quasi subito, si parla anche dei rapporti di Corrado con la madre di Dino e di altre due donne che ospitano Corrado, ma evidentemente non era questo che colpiva Carlo. Poi una volta parlammo anche di Bassani e del Giardino dei Finzi-Contini, dove c’è anche un accenno legato alla omosessualità. Carlo conosceva bene il libro, evidentemente lo aveva letto più volte ma non accennò mai ai riferimenti omosessuali. Dopo quel primo pranzo insieme a Torino prendemmo l’abitudine di incontrarci tutte le domeniche, veniva sempre lui da me in treno e ripartiva con l’ultimo treno utile alle 23.00. Ci vedevamo la mattina verso le nove e passavamo insieme tutta la giornata, ovviamente non si parlava mai di ragazze, e questo induceva a sperare, ma i dubbi rimanevano ed erano fortissimi. Dato che si avvicinava Natale gli chiesi che cosa avrebbe fatto per la ricorrenza e mi disse semplicemente che sarebbe stato in casa con i suoi perché era figlio unico e aveva solo i suoi genitori. Da lì abbiamo cominciato a parlare dei nostri rapporti familiari. I suoi avevano speso fino all’ultimo centesimo per farlo studiare e lui, una volta diventato ingegnere, in qualche modo sentiva di doversi sdebitare, doveva almeno dedicare il suo tempo ai sui genitori e doveva in qualche modo compensarli di tutto quello di cui si erano privati per farlo studiare, anche per questo lui lavorava dalla mattina alla sera e poi aveva con i genitori un rapporto affettivo molto particolare. I suoi non erano vecchi, ma era un po’ come se lui si considerasse padre di quelli che chiamava “i miei due vecchietti”. Tutto questo a me sembrava molto strano. Io gli raccontai dei litigi con mio padre per motivi politici e della rovina finale della mia famiglia a seguito del mio trasferimento a Torino, richiesto senza dire niente ai miei genitori. Carlo però mi stupì con la sua risposta: “Se la situazione era quella, hai fatto benissimo ad andartene via! Per me è diverso, i miei genitori sono gente molto semplice ma mi hanno insegnato i valori veri della vita.” Piano piano ci stavamo avvicinando a confidenze più personali, ovviamente nessuno dei due parlava di ragazze. Siamo andati avanti così per quasi sei mesi, come dei buoni amici. Io ero in dubbio se mettere il telefono oppure no, col telefono avrei potuto chiamarlo, ma alla fine lui avrebbe sempre chiamato da casa, quindi non ho messo il telefono, ma abbiamo continuato a vederci la domenica, come ormai era diventata tradizione. Non ci siamo mai fatti regali di nessun genere, un po’ per scaramanzia perché volevamo che tra noi tutto fosse libero e senza obblighi. Poi successe qualcosa di imprevedibile anche se atteso. Il 1° giugno dell’80 era domenica e il 2 era la festa della Repubblica e quindi sia io che lui avevamo due giorni liberi di fila, io gli proposi di rimanere a dormire da me e lui accettò. Gli chiesi come l’avrebbero presa i suoi e mi rispose in modo enigmatico che sarebbero stati contenti, io cercai di approfondire il discorso e lui mi disse che i suoi sapevano della nostra amicizia, perché lui gliene aveva parlato ed erano contenti, poi ha aggiunto: “d’altra parte non si sarebbero mai aspettati che io portassi a casa una ragazza.” Io feci finta di non aver capito e lui mi disse: “Dai che hai capito benissimo!” Io mi sono arreso subito e gli ho detto. “Quindi loro sanno …”, lui mi ha risposto: “Certo, gliel’ho detto io … ma non sanno chi sei, se ti conoscessero penso che sarebbero molto contenti.” Ormai stavamo parlando chiaro. Mi ha raccontato come si è deciso a parlare coi suoi. Ai tempi dell’università, lui stava a Torino, a pensione in una stanza da solo, e i suoi, quelle rare volte che lo vedevano erano molto preoccupati che lui non si trovasse una ragazza o almeno una compagnia femminile. Perché pensavano che una ragazza potesse farlo stare meglio, e quindi insistevano perché “si sentisse libero” e proprio da lì partì tutto il discorso di Carlo. I suoi genitori stettero a sentire molto attentamente ma non credevano di sapere già di che cosa Carlo stesse parlando, avevano fiducia in lui e volevano che fosse lui a fare capire loro che cosa volesse dire essere omosessuale. Lui disse solo che è esattamente come quando ti innamori di una ragazza, solo che invece di una ragazza è un ragazzo, ma i sentimenti sono gli stessi. Poi mi disse: “Tu non mi crederai, ma tra me e i miei genitori non è cambiato nulla, mio padre non è mai stato molto espansivo nemmeno prima, ma dopo, quando tornavo a casa mi sentivo addirittura molto più coccolato di prima. Io ho avuto la netta sensazione che i miei si fidassero talmente di me da pensare che non avrei mai fatto niente di sbagliato o di cattivo, l’unica cosa che mi ripetevano era: ‘quello che sta bene a te sta bene a noi!’” La notte tra il 1° e il 2 Giugno non abbiamo dormito ma ci siamo raccontati le nostre vite. Project, credo che tu possa capire quanto fosse liberatorio per noi capire che avevamo trovato un altro ragazzo omosessuale e che con quel ragazzo si stava costruendo qualcosa di bello. Né lui né io avevamo la minima esperienza di queste cose, io non parlo del sesso, che era tutto nel regno della fantasia, ma proprio del lato affettivo. Poco prima di riprendere il treno la sera del 2 Giugno mi chiese: “Ci verresti a conoscere i miei?” La richiesta era spiazzante per uno come me ma gli dissi di sì e mentre saliva sul treno mi disse: “Allora domenica prossima vieni tu da me!” Io gli dissi di sì, senza nemmeno capire la portata di una cosa simile. La domenica successiva presi il treno e alle 9.00 ero da lui, imbarazzatissimo. Mi disse di stare tranquillo e salimmo a casa sua. I genitori erano più imbarazzati di me e di discorsi ne facemmo davvero pochi. Mi offrirono degli amaretti artigianali tradizionali e mi dissero che il pranzo era pronto e che loro sarebbero andati a casa di una zia di Carlo. Il padre concluse così: “Non vogliamo mettervi in imbarazzo e comunque vi ringraziamo tanto di avere accettato il nostro invito.” Ci salutarono in modo un po’ impacciato e andarono via. Io pensavo che ci fossero rimasti male, ma Carlo mi disse: “Stai tranquillo che si fidano anche di te! Mio padre è molto schivo, ma io lo conosco bene!” Carlo mi portò in giro per la valle, camminammo molto in mezzo ai boschi tra salite e discese, lui era contento e anche io, anche se pensavo che non avrei mai potuto presentare Carlo a mio padre. Poi, col tempo, siamo anche arrivati a fare un po’ di sesso, ma questo non te lo racconto perché fa parte del privato mio e di Carlo e per me è una cosa sacra. Carlo lavorava a Torino ma prendeva il treno tutti i giorni per non lasciare soli i suoi, beh, è successa una cosa incredibile, un giorno che siamo andati a casa dei genitori di Carlo, il padre ci ha detto: “Io e mia moglie non siamo ancora vecchi e possiamo stare pure soli, ma voi perché non vi prendete un appartamento insieme a Torino?” All’epoca non era per niente una cosa facile proprio per questioni anagrafiche, cioè di nucleo convivente, ecc. ecc., l’idea era interessantissima ma i dubbi erano tanti. Adesso so che siamo rimasti insieme tutta la vita, ma allora non sapevo come sarebbe andata a finire. Insomma, arrivammo alla conclusione di comprare due appartamenti all’ultimo piano di un palazzo, uno di fronte all’altro. Lui era ingegnere civile e ha saputo scegliere il meglio. La condizione era che gli appartamenti fossero due e uno di fronte all’altro. Una sera arrivò a casa mia tutto trafelato e mi fece vedere quella che gli pareva un’ottima occasione. Mi spiegò dell’esposizione, dell’isolamento termico, perché saremmo stati all’ultimo piano, mi disse dei trasporti, di quelli che c’erano già e di quelli che forse si sarebbero costruiti in seguito. Allora non si parlava ancora di metropolitana a Torino, ma Carlo guardava lontano e a seguito della sviluppo urbano prevedeva che da quelle parti sarebbe passata prima o poi anche una linea metropolitana, il che poi è successo veramente ma in anni molto vicini a noi. I due appartamenti non erano identici ma erano entrambi di due stanze e il prezzo era molto simile. L’indomani (domenica) andammo a vederli da fuori, lui c’era già stato e aveva visitato tutto dall’interno e siccome era del mestiere e si intendeva anche degli aspetti finanziari, aveva visto che per acquistare gli appartamenti avremmo anche potuto accollarci una quota del mutuo acceso dal costruttore nel 1972 con la banca al tasso fisso del 4.8%, mentre nell’80 i mutui andavano sopra il 21%. Si prevedeva che a lunga scadenza i tassi sarebbero calati e Carlo insistette per l’estinzione del mutuo a 10 anni e non di più. Si sarebbe finito di pagare molto presto ma la cosa era al limite del possibile. Carlo diceva: “Se ce n’è bisogno i miei vengono a stare con noi e la casa loro si affitta o alla peggio si vende. L’aspetto dell’edificio era molto dignitoso e Carlo assicurava che erano case costruite in modo moderno e fatte bene. Lunedì mattina lui andò all’ufficio vendite e diede la caparra per il suo appartamento, fissando l’opzione per l’accollo del vecchio mutuo. Quando lui uscì io entrai subito dopo, mi fecero visitare l’appartamento ed era veramente molto bello e soprattutto luminoso e con una vista splendida. Mi dissero che, se volevo, potevo pensarci, ma io sapevo quello che dovevo fare e versai anche io la mia caparra facendo mettere nel compromesso esattamente quello che mi aveva suggerito Carlo. Lui mi aspettava fuori e ce ne andammo a pranzo insieme, ormai avevamo una casa nostra, di 4 stanze e due bagni, divisa in due, ma col tempo avevamo già progettato che io e Carlo saremmo rimasti a casa mia e l’altra casa poteva ospitare i suoi genitori. Abbiamo lavorato come matti per pagare le due case in dieci anni: lui stava sveglio a fare calcoli e a disegnare fino a notte alta, io nel mio appartamento facevo lezioni private a più non posso. I primi tempi è stata molto difficile, ma con l’aiuto dei suoi genitori ce l’abbiamo fatta. Poi le nostre condizioni economiche sono migliorate e nel ’90 abbiamo finito di pagare le case e le abbiamo ammobiliate in modo meno spartano. Prima lui aveva i mobili solo nello studio dove lavorava e qualche volta riceveva gente, ma l’altra stanza era praticamente senza mobili e la cucina pure. A casa mia era arredata solo la stanza dove facevo lezioni private. I condomini del palazzo non ci consideravano una coppia anche perché ci vedevano pochissimo, noi stavamo all’ultimo piano, non andavamo mai alle riunioni di condominio e davamo le deleghe a persone diverse. Quando ci incontravamo per le scale ci salutavamo come due perfetti estranei che vivono nello stesso stabile, era un rito che può sembrare stupido ma serviva a non dare nell’occhio. Nel ‘90 lui aveva 39 anni e io 44, non eravamo più giovani. La madre di Carlo proprio in quell’anno si è ammalata ed è venuta a stare col marito a casa di Carlo, invece Carlo stava a casa mia. Abbiamo assistito la mamma di Carlo fino alla fine nel ’93. Il papà ha patito in modo terribile il trauma della vedovanza, poi si è ripreso, abbiamo passato qualche anno buono insieme e poi è toccata anche a lui nel ‘99 per una malattia polmonare che se lo è portato via. Carlo aveva allora 48 anni e io 53, eravamo ormai uomini maturi, con una sicurezza economica e di lavoro e soprattutto con una sicurezza affettiva. Nessuno sapeva di noi ma noi avevamo in nostro mondo vero e non ci mancava nulla, non ci importava niente degli altri e qui ci fu un’altra svolta improvvisa, mi chiama mia madre e mi dice che mio padre sta male, era piena estate e io e Carlo avevamo in programma una vacanza girovaga insieme, chiedo a Carlo che devo fare e lui mi risponde senza esitazione: “Vai a preparare le valigie che partiamo subito!” Abbiamo viaggiato tutta la notte e la mattina appresso eravamo in ospedale davanti alla stanza di mio padre. Prima di entrare abbiamo chiesto al dottore che ci ha rassicurato, poi siamo entrati da lui insieme e io gli io detto: “Papà sono venuto qui per portarti a casa mia perché puoi essere seguito meglio.” E lui mi ha detto: “E tua madre?” quando gli ho detto: “Viene anche lei!” si è tranquillizzato, poi ha guardato Carlo e mi ha detto: “Chi è quel signore?” Gli ho risposto: “Quello il mio compagno…” Io avevo paura che questa cosa potesse farlo stare male ma non è successo niente del genere e mio padre ha detto: “E lui che dice se veniamo a stare da te?” Ho stretto la mano di mio padre e gli ho detto: “Lui dice che ci dovete venire!” Mia madre era quasi incredula, poi si è messa a parlare con Carlo. Otto giorni dopo, mio padre è stato dimesso dall’ospedale e abbiamo cominciato il lungo viaggio per Torino. Ci fermavamo ogni tanto per fare riposare papà perché faceva anche molto caldo. La sera tardi, poco prima di mezzanotte siamo arrivati a casa a Torino. Mio padre non aveva capito che le due case erano separate, quando ha capito che sarebbe stato da solo con la moglie in un appartamento con il figlio sullo stesso pianerottolo si è rasserenato. Carlo ha preparato la stanza per mio padre e mia madre, poi ha salutato ed è andato nell’atro appartamento per lasciarmi solo coi miei genitori. Mio padre mi ha detto: “Ma è un brav’uomo! S’è preso a carico pure a noi e lui avrà pure i suoi genitori…” Gli ho detto che non aveva più i genitori e che i genitori avevano vissuto con noi fino alla fine, poi mio padre mi ha fissato e mi ha detto: “Allora pure tu sei un brav’uomo! E sono stato uno stupido io che non l’ho capito prima.” La salute di papà è migliorata, si sedeva sul terrazzino a guardare le montagne, lo sentivo tranquillo, parlava spesso con Carlo e lo ammirava, ne diceva delle cose molto belle, mamma era serena, faceva un po’ di cucina e vedeva riunita la famiglia come non avrebbe mai immaginato, è mancata prima lei nel 2011 e poi mio padre nel 2012, quando io avevo 68 anni. Da allora io e Carlo siamo stati veramente soli, eravamo ormai vecchi ma pensavamo che un altro pezzetto di vita avremmo potuto godercelo e invece il Signore non ha voluto e siamo rimasti insieme solo otto anni. Adesso il mio mondo è veramente finito, ci sono rimasto solo io e non ho eredi. Non so quanto camperò e se ci sarà qualcuno accanto a me quando sarà la mia ora, ma io la mia vita l’ho vissuta, sono stato molto fortunato e ne sono pienamente consapevole. Incontrare Carlo ha cambiato la mia vita. Non ci è mai passata per la mente l’dea di lasciarci. Senza di lui io sarei stato un’assoluta nullità, mi sarei sentito frustrato, non avrei recuperato il rapporto con mio padre e non avrei mai avuto una vita affettiva vera. Vorrei dire ai ragazzi che leggeranno questa storia che all’inizio nessuno sa mai come andranno le cose, io a vent’anni davo per scontato che sarei rimasto sempre solo ma non è successo affatto così. Io mi sento un uomo vecchio perché sono vecchio ma ho vissuto la vita che volevo e con la persona che volevo. I problemi sono stati tanti ma abbiamo fatto la strada insieme e quando penso a Carlo so che in qualche modo lui è con me e sarà con me finché non ci ricongiungeremo in paradiso.

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COPPIA GAY E GATTI

Quella che segue è una parte della storia privata di Armando e Peppino, i protagonisti di “Vita gay negli anni 40-50”.

Potete ascoltare direttamente la storia in podcast su Radio Progetto Gay: http://progettogayradio.blogspot.com/2013/09/coppia-gay-e-gatti.html

E beh… e che devo dire… mi vergogno di parlare di queste cose, sono cose nostre, sono cose private e poi perché te ne dovrei parlare? Così tu le scrivi e poi qualcuno le legge? … e Peppino che dice? Gliel’hai chiesto a Peppino? … Tanto lui dice sempre di sì, non ha mai detto di no a nessuno… è una brav’uomo, no, no… questo proprio lo posso dire… è un uomo proprio bravo… però certe volte esagera un pochetto… mo’ in mezzo al palazzo lo pigliano pure per pazzo, ma quello pazzo non è … no, no… è cominciato tutto con la storia dei gatti… sì, sì, dei gatti… ne tenevamo uno di gatto, e uno si poteva pure tenere, poi s’è presentato con un altro, uno piccolo, dice che quello era abbandonato, che non c’ha la mamma, e avrebbe fatto una brutta fine… e lui che ti fa? … Si pensa che la mamma la può fare lui… sì, sì, la mamma del gatto, sì… che tu che ti credi che quando un gatto è piccolo fa come quando è grosso… che quello il gatto piccolo lo doveva allattare col contagocce e mica una volta… sette o otto volte al giorno… insomma era una storia che si dimenticava di tutte le altre cose e pensava solo ai gatti… poi, manco s’era fatto grande quello piccolo che me n’ha portato un altro… e io che dovevo fare? Ce lo siamo pigliato e basta! E che dovevamo fare? Io gli dicevo… e mo’ che vuoi fare? Mo’ sei diventato nu gattaro? Che tu a me devi pensare, no ai gatti! Che se io ero un gatto tu a me ci pensavi di più … ma mo’ hai da pensa’ ai gatti! … E lui si metteva come nu cane bastonato e io dicevo: E famme ‘nu sorriso! Su! Tu sei il gattaro mio! … Insomma… noi siamo arrivati a avere otto o dieci gatti per casa… otto! Hai capito! … E va bene! Ma lui così stava contento… e che dovevo fare… insomma ce li siamo pigliati… poi gl’è venuta in mente un’altra storia… che alla villa comunale stavano altri gatti e che a quelli non ci pensava nessuno… allora io ho detto… “Senti Peppi’… ma non è che mo’ ci vogliamo portare a casa tutti i gatti della città?” e lui ha detto: “No! Ma quando mai! … Questo non lo devi nemmeno pensare…” … però fatto sta che mo’ i gattini piccoli s’erano fatti grandi e lui se ne usciva la mattina per portare da mangiare ai gatti alla villa comunale… e non è che portava gli avanzi… no, no… la sera cucinava … sì  sì! … Cucinava apposta per i gatti e tutta roba buona che me la sarei mangiata pure io… mo’ sai la gente com’è… insomma che qua la gente già gli affari loro non se li sanno fare, quelli lo vedevano uscire con le buste la mattina e lo sapevano tutti dove andava… quando passava quelli dicevano: Là, vedi là? Là sta il gattaro! … e io ero diventato quello che sta col gattaro. Prima lasciava le cose per i gatti vicino alla palazzina del comune, dentro alla villa… poi una volta gli hanno messo una multa… perché dice che sporcava tutto… insomma che poi venivano i topi… insomma 150 euro! Hai capito! Ma che ti credi che quelli del comune l’hanno finita così… ma manco per niente, che quelli tengono tante gente, tanto personale che sta lì senza fa’ niente… e siccome a lui lo chiamavo “il gattaro”… che t’hanno combinato quelli? Insomma hanno mandato l’assistente sociale… una donna… ma io le ho detto… ma voi che venite a cercare qua? Che io manco pensavo che fosse per’ i gatti, insomma tu hai capito a che cosa pensavo io … e che dovevo pensare.. Insomma essa ha cominciato una predica… e l’igiene… e la casa sporca… e i comportamenti spia… proprio così… ma quale? Che essa era una spia… no Peppino mio che è sempre stato nu bravo cristiano! … Insomma sai che t’ha fatto l’assistente sociale? … m’ha dato un libro… che dice che l’aveva fatto il comune… ma mo’ non era proprio un libro… insomma una cosa piccola, un libretto… il Manuale della Ecogattara! Eh! Sì, sì! Proprio… il Manuale della Ecogattara… hai visto che cosa fanno al comune! … e poi dicono che al comune non fanno niente! … Insomma intanto le ho detto… ma se mai me lo deve dare del gattaro e no della gattara, e si stava innervosendo, insomma abbiamo pigliato questo libretto… ma quello era una cosa da pazzi! E dice che doveva pulire prima di mettere il mangiare… e che dopo doveva raccattare tutto, tutto… piattini… insomma tutto quanto… e diceva che se i gatti lasciavano escrementi là vicino lui li doveva togliere con la paletta, li doveva metter dentro la busta chiusa, però poi dice che ai rifiuti non li poteva buttare e manco dentro al cassonetto… insomma che doveva fare, se li doveva portare a casa? Mo’ hanno fatto quella legge che se tieni il cane e quello la fa per terra tu la devi raccogliere… e va bene’… ma mo’ pure quella dei gatti? Ma com’è che prima, quando non ci andava Peppino, lì stavano escrementi da tutte le parti e nessuno se ne preoccupava… e mo’ che ci va lui se n’è uscita pure l’assistente sociale? Che lei mica ci va a pulire, viene a rompere solo le scatole a noi… Poi, manco sono passati tre o quattro mesi che Peppino s’è ammalato e è stato all’ospedale 15 giorni… Madonna mia! Che sono stati quei 15 giorni! … io poi di gatti non ne capivo niente… lui all’ospedale, che non è che pensava a quello che teneva… no! Pensava ai gatti… hai capito! … E io che potevo fare? … la mattina e la sera due ore e due ore con lui all’ospedale e tutto l’altro tempo lo passavo a cucinare per i gatti, a tenere quelli di casa, che quelli erano una decina, e poi dovevo andare alla villa… a portare da mangiare ai gatti che stavano là… e pulisci prima e pulisci dopo… E poi stava pure un vigile alla villa… che quello stava là solo perché doveva sorvegliare a me per vedere se le cose le facevo come stava scritto sul libro dei gatti… e che vuoi fare… stanno tanti lavori a questo mondo… e quello a me doveva controllare… stava sempre là! Poi Peppino è uscito dall’ospedale e grazie a Dio è andato tutto bene… e io mi sono sentito un altrettanto! Sì, qualche cosetta la facevo pure io ma lui era il capo in testa! Le decisioni tutte lui le pigliava… sai quelle cose che devi capire se il gatto sta male… se lo devi portare al veterinario… che noi quei quattro soldi di pensione ce li spendevamo tutti per dare da mangiare ai gatti e per portarli al veterinario… Ma mo’ tutta ‘sta storia che c’azzecca? … Mo’ guardati attorno… stanno gatti per casa? … Niente! Manc’uno! L’ha portati tutti Peppino alla pensione… come stanno le pensioni per i cristiani… mo’ stanno pure pei gatti… E lo sai com’è che s’è fatto convincere? … Pure quella è un’altra bella storia… insomma un giorno se ne viene un’altra assistente sociale… che quella, quando ha detto assistente sociale io già le stavo a chiudere la porta in faccia… le ho detto: Ma un’altra volta con la storia dei gatti?  Essa m’ha guardato e ma detto: Che cosa? … quella con la storia della gatti non c’aveva niente a che vedere! … M’ha detto che era per una domanda che aveva fatto il signor Giuseppe al comune … ma quale domanda? Io non capivo niente! Le ho detto: Scusate… ma quale domanda? Io non ne so niente! Essa ha tirato fuori una carta, che era proprio come scrive Peppino. Insomma alla fine m’ha detto che si doveva presentare alla pediatria dell’ospedale il lunedì mattina e m’ha lasciato una carta… poi m’ha guardato e m’ha detto: Ma avete capito bene? M’ha dato proprio del voi… E io le ho risposto che vecchio sono, e sono pure un mezzo invalido, ma stupido non sono… insomma… e così se n’è andata… Quando è venuto Peppino con le cose dei gatti e ha visto quella carta s’è fatta proprio allegro allegro e allora la cosa me l’ha spiegata… ha detto che aveva fatto la domanda per fare il volontario all’ospedale… io gli ho detto, ma tu che sai fare? Tu non sei dottore, tu non se infermiere… tu non sai fare proprio niente! … ma tu che vai a fare là?  Tu puoi dare solo fastidio… mo’ proprio così l’ho detto… devi vedere com’è s’è fatto scuro, proprio pareva che l’era crollato il mondo addosso… e io che dovevo fare… insomma, così proprio non lo potevo vedere e allora gli ho detto un poco di cose belle, sai di quelle che si raccontano quando ti devi fare perdonare… gli ho detto che era un brav’uomo … che Peppino è veramente nu brav’uomo, che è sempre meglio per i cristiani che per i gatti… che pure quelli sono povere bestie… però, i cristiani sono un’altra cosa! Poi gli ho detto: Te lo pigli un caffè? … Noi non abbiamo mai litigato, ma quando c’è stato qualche screzio… perché in tanti anni qualche screzio c’è stato… quando facevamo la pace ci pigliavamo una tazzina di caffè insieme… Insomma questo caffè ce lo siamo pigliato e lui era di nuovo tutto contento… che quando Peppino sta di buon umore è una cosa bella a vedere! … Mo’ non sapeva più che doveva combinare coi gatti… quelli alla villa comunale stavano soli prima e sarebbero stati soli pure dopo… lui però ha mandato una bella lettera all’assistente sociale e le ha spiegato, tutto bello bello, che mo’ ai gatti non ci poteva pensare più lui e che mo’ ai gatti ci doveva pensare essa… l’assistente sociale! La facesse essa l’Ecogattara! Poi ha pensato ai gatti nostri… io gli ho detto: uno teniamocelo! Almeno uno! Ne abbiamo tenuti sempre una decina per casa… pure essi sono povere bestie! … E lui m’ha risposto che i gatti portano malattie e che non puoi lavorare all’ospedale e tenere gatti per casa… e mo’ s’è rivoltato il modo! Insomma tanto ha fatto e tanto ha detto, che quella decina di gatti l’ha piazzati tutti quanti: tre o quattro a gente del palazzo… ha detto che così i gatti li poteva rivedere, altri quattro o cinque di quelli più piccoli, agli amici nostri e due o tre alla sorella, quelli che ha dato alla sorella erano quelli che stavano peggio e dovevano essere più accuditi… non ti dico la sorella! Dice: Ma tu a me me li vuoi appioppare? … ma almeno dammi due gatti gatti! Che questi manco si reggono in piedi! Ma Peppino… alla sorella un altro poco e se la mangiava! Che alle bestie bisogna volergli bene che se uno le bestie le tratta così, quando è il tempo suo gli altri lo trattano allo stesso modo… insomma alla fine la sorella s’è pigliata i gatti vecchi… e mo’ Peppino già l’è andata a rompere le scatole tante volte perché andava trovando come stavano i gatti! … Insomma, poi ha fatto la visita medica… gli hanno trovato un poco di pressione alta e il dottore ha detto che è stata una fortuna che gliel’hanno misurata e mo’ prende pure certe pastiglie… certe cose piccole piccole per la pressione… comunque l’hanno fatto abile… che quello c’aveva paura che non se lo pigliavano per la storia della pressione… poi gli hanno fatto fare il corso… e quello una cosa interessante era… che pure io me le sono guardate tutte le cose che gli hanno dato… sai tutte le cose di igiene e poi come è organizzato l’ospedale e come si ricevono i parenti… insomma tutte queste cose qua… ci stavano pure tante cose brutte sulle malattie dei bambini… ce ne stavano certe… Madonna mia! Ma insomma certe cose bisogna pure saperle… e poi se lui deve lavorare all’ospedale le deve sapere… dunque, passato il mese del corso, che quello quattro settimane è durato e stava lì tre pomeriggi alla settimana… insomma passato il corso non ti dico quello che ha combinato il primo giorno che è andato lì, quello non aveva dormito per tre giorni, sempre a pensare che doveva andare lì… stava tutto imbambolato che la mattina il caffè l’ho dovuto fare io, lui proprio non stava in piedi e io dicevo: Ma mo’ che vai all’ospedale perché non ti fai ricoverare pure tu? Ma lo vedi che non ti reggi in piedi! Ma lui pareva una molla, saltava da una parte e dall’altra… l’ho accompagnato fino all’ospedale ma non m’ha fatto entrare e ci siamo salutati al cancello. Io sono andato a casa e gli ho preparato il pranzo… una cosetta sfiziosa… che lui stava facendo una cosa importante… almeno così la vedeva lui… quando è arrivato a casa non la finiva più… e di questo e di quello… che aveva trovato quello che voleva fare… che noi bambini non ne abbiamo avuto, che se li avessimo avuti mo’ s’erano fatti vecchi pure loro… che lui in mezzo ai bambini stava bene che lo chiamavano nonno e era tutto contento… ma pure come stavano certi bambini…. Madonna Mia! Ma come fa Peppino a stare là dentro? Che quelle cose so’ brutte… so’ proprio cose che ti fanno il cuore piccolo piccolo… che tu dici… un vecchio… e va bene! Ma ‘nu bambino! Gesù! Ma perché? Quelli manco hanno cominciato… Insomma mo’ lasciamo da parte le cose brutte… insomma Peppino era proprio contento… poi gli è venuta l’idea! M’ha guardato e m’ha detto: Ma domani perché non ci vieni pure tu? Io pensavo che voleva che l’accompagnavo… e ho detto: Va bene, domani andiamo insieme… E lui m’ha fatto un sorriso ma tu dovevi vedere! S’è fatto rosso rosso e m’ha dato nu bacio… cosa che tra noi è proprio una cosa rara… io mi pensavo: Ma com’è mo’ tutta sta storia? Poi ho capito…. Peppino voleva che il volontario lo facevo pure io! … ma io non avevo capito niente! … e mo’? E che potevo fare? Mica gli potevo dire: Guarda! Tu non hai capito niente io pensavo che ti dovevo accompagnare e non che dovevo fare pure io quello che fai tu… E no! E come fai? Una cosa del genere? … e no! Peppino una cosa s’aspettava e io… e che dovevo fare? … Insomma gli ho detto che l’indomani la domanda l’avrei fatta pure io e lui era tutto contento… però mo’ tu questa cosa a Peppino non gliela devi dire… e no! Se no mi metti proprio in difficoltà! Questo tu non lo devi scrivere! Se no mi fai proprio arrabbiare! … Allora ci siamo capiti? … va bene… Insomma stavo dicendo che poi ho fatto la domanda però a me non m’hanno preso… mo’ se è buono o non è buono non lo so, però io alla fine penso che ci sarei pure stato bene… sì, sì… è finita così… va bene… insomma io l’avevo fatto per lui… però pure a me la cosa mi faceva piacere, prima l’idea non ce l’avevo ma poi, piano piano… Insomma mo’ Peppino va là tre volte la mattina e tre volte il pomeriggio e io sto a casa… mo’ vado io alla villa comunale a pensare ai gatti… ma lui m’ha comprato una tuta di plastica… quando torno la devo lavare subito… sai l’igiene! … però ai gatti mo’ ci penso io… e sai tu come mi chiama? Quando torna a casa mi dice: Tu sei il bel gattaro mio! … E va buo’ … e che dovevamo fare! Però mo’ sta proprio contento…

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RELAZIONI GAY IMPREVEDIBILI

Ciao Project,
ho quasi 70 anni e ancora mi piace leggere il tuo forum. Mi serve per sentirmi ancora vivo e in contatto con il mondo del dopo di noi. Alla mia età, posso dire di avere imparato tante cose e soprattutto una, cioè che il nostro tempo è breve e non dobbiamo sprecarlo correndo dietro a cose più o meno assurde, l’unica cosa che dà un senso alla vita è cercare di fare stare meglio altre persone. Per un gay, ovviamente, è fondamentale avere una funzione positiva rispetto ad altri gay, dar loro una mano, mettersi a disposizione. Ovviamente c’è un tempo per tutte le cose e quelli della nostra età, se non vogliono finire nel ridicolo, devono capire che il loro ruolo non è di entrare in competizione con i giovani, ma di facilitare la strada dei giovani, attraverso dei comportamenti adeguati: prima di tutto evitando di giudicare, poi dicendo sempre la verità e sapendo stare al proprio posto. Innamorarsi di un ragazzo è una cosa, e va bene per i giovani, ma voler bene a un ragazzo è possibile a tutte le età. L’ho visto nella mia personale esperienza: bisogna seminare qualcosa di buono, senza pensare di vedere i risultati. Probabilmente i risultati ci saranno anche se forse non li vedremo. E poi, ho imparato un’altra cosa, i ragazzi, tutti i ragazzi e quelli gay in particolare, sentono forte il bisogno di avere intorno un clima di tipo familiare, ma non nel senso di divieti, di consigli o di giudizi, ma nel senso di presenze non giudicanti, di affetti anche semplici ma incondizionati. Project, io sono più vecchio di te e di malinconie per la testa ne ho proprio tante, perché adesso che comincio a capire appena un po’ come funzionano le cose, mi accorgo che sto arrivando alla fine del mio tempo e penso che tutta l’esperienza che ho accumulato potrebbe non servire a nulla, però, Project, anche se sono vecchio, mi sento sereno, perché io ho i miei affetti e mi sento corrisposto, ci sono dei ragazzi che mi vogliono bene, sono due ragazzi gay (una coppia) che ho conosciuto del tutto casualmente, hanno più o meno 30 anni, e tra noi si è creato un bellissimo rapporto. Ovviamente non devo essere troppo presente perché sarei invasivo, ci sentiamo tutte le settimane e più o meno tutte le settimane andiamo insieme a prendere una pizza, in pratica mi hanno adottato. Sto bene con loro, mi sento in famiglia, un po’ come un papà che è rimasto vedovo e che cerca di andare avanti da solo come può, ma ha due figli che gli vogliono bene. Non avrei mai immaginato che in vecchiaia avrei potuto vivere un’esperienza simile, ma ti assicuro che sono cose che riempiono la vita, che le danno senso e rendono anche la vecchiaia una cosa accettabile. Avevo letto sul tuo forum di un signore della nostra generazione che si era trovato in una situazione in un certo senso simile alla mia (ma non sono stato capace di ritrovare quel post), lui parlava di rapporti simili ai rapporti familiari che possono crearsi in modo del tutto inatteso e che, magari in tono minore, possono creare qualcosa di simile a una vera famiglia, perché creano una solidarietà. Certo che, magari, in una famiglia tra genitori e figli c’è un mutuo sostegno reciproco (e forse tante volte non c’è nemmeno quello) perché le età dei genitori e dei figli sono meno lontane, però in effetti io coi miei ragazzi (li chiamo così) ho proprio un bel rapporto: si preoccupano di me non solo per le mie necessità, diciamo così, quotidiane, come fare la spesa o andare a ritirare la pensione, ma mi chiamano anche senza un motivo specifico, per il solo piacere di parlare un po’ con me, almeno io la vedo così. Di una cosa sola ho paura e cioè della possibilità di perdere la mia autonomia personale e di praticamente “costringere” (non per mia volontà, ma per necessità di fatto) questi ragazzi a prendersi cura di me, io penso che lo farebbero, ma per loro sarebbe un vincolo molto pesante. Comunque, cerco di non pensarci e di stare bene con loro come se avessi la loro età. Mi dispiace dovermene andare da questo mondo proprio adesso che cominciavo a starci bene: ho mille acciacchi anche pesanti, dell’età, certe volte fisicamente sto proprio a terra e non so che cosa aspettarmi dal futuro, neppure a breve termine, ma ho anche degli affetti veri, del tutto inattesi, non ridivento giovane per questo e i miei malanni me li devo tenere, ma non mi sento solo, ed è moltissimo, so che loro ci sono e che staranno vicino a me fino alla fine, e poi, quando vedo che stanno bene insieme, che sono sereni, che progettano il futuro… beh… mi sento profondamente confortato. Insomma, nella vita accadono cose strane e imprevedibili, che qualche volta ti cambiano la vita in meglio, anche quando non te lo aspetteresti più. Beh, ti saluto, Project, anche da vecchi si può stare bene, almeno a livello affettivo, quando non si resta veramente soli.
Giacomo da Bologna.

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CAPODANNO GAY

Caro Project,

oggi è capodanno e io sono solo in casa e non ho proprio niente da celebrare. Ho 74 anni, ho lavorato una vita per comprare un piccolissima casetta e sono stato imbrogliato più volte da gente di infimo livello abituata a speculare su tutto, ma adesso questa casetta mia ce l’ho. Ho fratelli, sorelle  e nipoti, ma ovviamente loro hanno il loro mondo fatto di veglioni, di gite e di sciare sulla neve, perché hanno i soldi per farlo. La vita, per tutti, anche per loro, alla fine sarà comunque uno schifo, ancora adesso non se ne rendono conto e quando parlo con loro vedo che proprio non hanno capito niente e che mi trattano come un mezzo demente. Io sono gay, loro non lo sanno, forse lo immaginano, ma di certo io non ho mai parlato di queste cose e d’altra parte non ho mai avuto un compagno. Di una sola cosa mi sento orgoglioso, cioè di non avere messo al mondo figli destinati comunque a soffrire. La giovinezza, se sei ricco, è una ubriacatura di stupidaggini, corri appresso alle mode, al ruolo sociale, e non ti guardi intorno, non vedi in che squallore si vive, non vedi che c’è tanta gente abbandonata a se stessa che sta scivolando in abissi di miseria e di depressione. Eppure non si fa nulla per queste persone e si continua a mettere figli al mondo in modo del tutto irresponsabile. Io sono gay e ovviamente non ho figli, non ci sarà nessuno condannato a vivere per causa mia. Francamente non ho mai capito a che cosa sia servita a mia vita: niente figli, rapporti familiari falsi o inesistenti, qualche pia illusione tipo la religione, ma è durata poco, e per il resto solo un’attesa penosa che arrivi l’ora. Io in salute sto ancora relativamente bene, ma gli anni passano e ogni capodanno significa scendere uno scalino, altro che attesa del futuro! Io ormai sono in attesa di una cosa sola. Forse i vecchi non possono più capire il mondo dei giovani, i vecchi sono arrivati alla consapevolezza del non senso della vita ma non possono comunicarla a nessuno che sia in grado di capirla. Ieri ho comprato al supermercato due sopra-cosce di pollo, stamattina le ho messe a lessare, col brodo ci farò un po’ di riso, poi mezza sopra-coscia di pollo a pranzo e mezza a cena e un’arancia, questo sarà il mio capodanno. Non vedo l’ora che arrivi domani perché se ho bisogno del dottore almeno lo trovo. I miei tre fratelli e i miei otto nipoti si sono “dimenticati” di farmi gli auguri, e li capisco, perché la mia casetta, spartita tra otto eredi, è una cosa veramente misera e non vale la pena di perdere tempo con un vecchio zio. Ma io sto meglio così. Ho visto la messa del papa, è un vecchio pure lui, ci prova a dire qualcosa di buono, ma non lo ascolta nessuno, chissà che cosa pensa veramente dentro di sé. Ho sempre paura di addormentarmi col fuoco acceso, devo comprarmi una cucina con un sistema di sicurezza che spegna il fuoco se la temperatura si alza troppo, oppure, e forse meglio, una pentola elettrica a tempo, almeno posso stare tranquillo. Non ho comprato il telesalvalavita Beghelli, perché lo dovrei collegare coi telefoni dei miei fratelli e dei miei nipoti… e no, non è proprio cosa. Pensavo di fare testamento a favore di un’associazione benefica, ma sono ancora incerto, tanto i miei nipoti di soldi ne buttano tanti e non hanno certo bisogno dei miei. Alla fine di novembre ho saputo che è morto un signore che mi era molto simpatico, ci salutavamo sempre per le scale, poi non l’ho visto più perché è finito in ospedale e lì dopo tre settimane è morto. Adesso a casa sua è venuta un’agenzia a prendersi cura dell’appartamento (un appartamento molto meglio del mio) e hanno portato via tutti i mobili per fare la ristrutturazione, dal modo come hanno portato via i mobili era evidente che sarebbero finiti tutti in discarica, mobili, ma anche libri e tante altre cose, i ricordi di una vita tutti in discarica. Beh, non la faccio tanto lunga, tanto hai capito, e vado a vedere a che punto sta il brodo.

Non so se augurarti buon anno, perché mi sembrerebbe di prenderti in giro, ti dico solo che leggere qualcosa di Progetto mi tira un po’ fuori dal pozzo della malinconia. Ciao.

Filippo (da Milano)

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NON GIUDICARE GLI ALTRI GAY

Caro Project,

ho letto alcune parti del tuo libro “Essere Gay” e mi ha colpito l’idea di morale gay, cioè l’idea di distinguere tra una omosessualità buona e una cattiva o almeno meno buona. In questo modo io credo che tu voglia mettere in evidenza quanto c’è di buono nella omosessualità, e su questo non posso che concordare con te, ma purtroppo sottolineando quello che c’è di buono si finisce per sottolineare anche quello che c’è o ci può essere di negativo e qui potrei ancora essere d’accordo con te, ma con qualche limitazione significativa.

Project, tu dici di essere assolutamente laico e ti rispetto per questo, io vengo invece da una formazione cattolica abbastanza tradizionale, in teoria dovrei aver imparato a distinguere il bene dal male ma ho anche imparato a non giudicare e a non sottovalutare le ragioni degli altri, anche di quelli che hanno stili di vita diversissimi dal mio.

Sono ormai vicino ai 70 anni e ogni volta che mi capita di poter avere un dialogo serio con qualcuno che ha vissuto esperienze lontanissime dalle mie mi rendo conto che se per un verso mantengo la mia tendenza a giudicare, per l’altro sono fortemente frenato dal fatto che le cose sbagliate, quando sono viste da vicino sono molto meno strane e sbagliate di quanto appaiono quando sono viste solo da lontano o sono considerate solo in teoria.

Parlavo giorni fa con un ragazzo non ancora trentenne e, come mia vecchia abitudine e mio difetto, stavo per l’ennesima volta cercando di mettermi in cattedra, ma per fortuna mi sono trattenuto e ho lasciato spazio a quel ragazzo. Lui mi ha parlato con molta sincerità delle sue esperienze di vita e io mi sono sentito del tutto disarmato, mi rendevo conto che i miei argomenti moralistici non avevano alcun senso se confrontati con esperienze dure come quelle vissute da quel ragazzo. Mi sono sentito un totale imbecille, uno che si è illuso di capire tutto senza avere realmente alcuna conoscenza di ciò di cui sta parlando. Il mio mondo mi è sembrato solo un ammasso di chiacchiere vuote.

Che avrei fatto se mi fossi trovato nelle situazioni in cui si è trovato quel ragazzo? Che cosa avrei scelto? E poi, avrei avuto reamente la possibilità di scegliere? Quel ragazzo era radicalmente diverso da me nei suoi atteggiamenti perché aveva avuto una vita radicalmente diversa dalla mia e molto più dura della mia. Prima avrei giudicato male i ragazzi come lui, avrei detto che avevano l’idea fissa del sesso, ma, in fondo, vedevo sempre più chiaramente la stupidità di questi giudizi.

La moralità del mio essere gay, o almeno quella che a me sembra essere la moralità del mio essere gay, se vogliamo dire tutta la verità, mi viene dalla mia formazione cattolica, che mi ha in qualche modo preservato dalle esperienze più dure, cioè il mio essere cattolico mi ha fatto essere gay in un modo molto particolare, ma attenzione, si tratta di un modo più prudente, più oculato, più controllato, ma forse anche più ipocrita e meno sostanzialmente partecipativo. Ho fatto quello che fanno tutti i ragazzi, sesso compreso, anche se con prudenza, non sono un santo e mi rimprovero soprattutto di non aver fatto quel po’ di bene che avrei potuto fare, poi mi fermo a riflettere e mi chiedo che cosa mi ha allontanato per esempio dalla ricerca del sesso sfrenato, e onestamente, pensandoci bene, non credo che sia stata l’educazione cattolica ma la paura, cioè brutalmente la necessità di salvare la faccia, che è una cosa comunque molto meschina, ecco che il confine tra moralità e meschinità diventa molto meno netto.

La necessità di salvare la faccia per me aveva un valore solo perché non sono mai stato veramente me stesso al 100% e soprattutto non sono mai stato messo con le spalle al muro da situazioni di fatto più forti di me, come è accaduto a quel ragazzo, perché in quel caso con ogni probabilità mi sarei comportato esattamente come lui. Quando si va alla sostanza delle cose la moralità delle persone, più che una qualità individuale è il risultato di un contesto e gli stessi concetti di merito e di colpa perdono i loro contorni chiari.

In fondo lo stesso papa Francesco aveva detto. “Chi sono io per giudicare un gay?” Sembrava una frase impacciata, che voleva indicare un’apertura ma è una frase che ha un significato estremamente serio. Ho provato ad applicare quella frase a me stesso e sono arrivato alla conclusione che non ho alcun diritto di giudicare. Anche chi va alla ricerca disperata e quasi nevrotica di sesso può avere ugualmente una sua morale e quella morale non è peggiore della mia, ed è solo apparentemente diversa.

Dal dialogo con quel ragazzo ho capito che il sesso non gli ha portato affatto la felicità e che in lui il bisogno di essere amato e rispettato per quello che è veramente è vivissimo, direi anzi che è molto più vivo che in me. Siamo rimasti a parlare per ore e abbiamo capito che tra noi c’era un rispetto reciproco profondo, un rispetto reciproco quasi inaspettato ma assolutamente reale.

Project, permettimi una divagazione, io, che sono gay e che non voglio perdere il contatto con la mia fede, ammiro molto papa Francesco, perché, secondo me, ha riportato il Cristianesimo ai suoi valori fondanti, non ha fatto polemica con la modernità ma si è messo alla ricerca delle persone e delle loro sofferenze, in sostanza non ha giudicato ma ha cercato di fare sentire la sua voce a favore degli ultimi. Fare qualcosa di buono e di concreto senza giudicare nessuno, questo è il suo stile.

Insomma, adesso sento che il mio essere gay può essere veramente conciliabile con il mio essere cristiano, almeno fino ad un certo punto. So che tu hai sostenuto il contrario, ma lo hai sostenuto in altri tempi, e mi piacerebbe capire che cosa pensi oggi, dopo che papa Francesco ha dato una lettura più evangelica del cattolicesimo. Scusami se mi sono permesso di provocarti con questa mia mail ma ti stimo molto e mi piacerebbe sapere se sei sempre dello stesso parere. Vorrei sottolineare che apprezzo molto quello che fai.

Paolo

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Caro Paolo,

ho letto la tua mail con vivo interesse. Sì: non giudicare! È un principio evangelico ma è anche un dovere morale laico. Quello che dici di quel ragazzo, mi è capitato più volte e mi ha messo in crisi più volte. Adesso la mia tendenza a giudicare si è ridotta notevolmente e ho recuperato la consapevolezza della mia ignoranza e delle mie incapacità. Credo di avere ancora moltissimo da imparare e purtroppo, alla mia età, non avrò il tempo per capire molte cose, ma certo l’idea di giudicare la terrò a freno.

Quanto a papa Francesco, non posso negare che, pur sentendomi radicalmente laico, ascolto con la massima attenzione quello che dice e cerco di farne tesoro. Ho anche io l’impressione che abbia riportato il cattolicesimo a valori più autenticamente evangelici. Il cattolicesimo non è o non dovrebbe essere un’ideologia. Direi che è un papa che ha atteggiamenti sostanzialmente laici e condivisibili da molte persone di buon senso anche fuori dalla chiesa cattolica, ha indubbiamente coraggio. Non posso negare che, specialmente negli ultimi mesi, sono rimasto molto colpito dal fatto che Francesco non sottolinei mai le divisioni ma cerchi la collaborazione degli uomini d buona volontà per fare tutti insieme qualcosa di buono e di concreto. Effettivamente papa Francesco non ha giudicato ma ha cercato di perseguite il bene impegnandosi per le periferie del mondo. Mi dispiace solo che sia ormai un uomo anziano perché la sua presenza potrebbe essere archiviata rapidamente dopo la sua uscita di scena e sarebbe veramente un danno per tutti, cattolici e no. Beh, credo che si capisca abbastanza bene quello che penso di papa Francesco.

Paolo, ti ringrazio veramente moltissimo della tua “provocazione”! Magari ci fossero tante provocazioni di questo tipo!

Project

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FINE DI UN RAPPORTO GAY INTERGENERAZIONALE

Caro Project,
ho letto quello che hai scritto su “Essere Gay” dei rapporti intergenerazionali e sono rimasto molto colpito, è la prima volto che trovo questo argomento trattato in un modo serio. Leggere poi qualche storia di questo genere nel forum, mi ha dato coraggio. Oggi, 21 Luglio 2017, sento il bisogno di dare anche il mio contributo, vedrai tu come usarlo, sentiti comunque del tutto libero. La mia storia è per buona parte diversa dalla storie che ho letto nel forum ed è proprio per questo che penso possa essere utile.
Sono un uomo di quasi sessant’anni, sono sempre stato gay, ho avuto amici gay ma non ho mai avuto un compagno, in realtà non mi sono mai innamorato di nessuno, fino a circa 10 anni fa, allora ero ancora in buono stato fisico, ma avevo già messo da parte del tutto l’idea di trovarmi un compagno, quando, in modo del tutto inatteso, ho conosciuto un ragazzo che aveva allora 20 anni, un ragazzo che mi ha colpito subito, direi l’unica persona che ha avuto per me delle attenzioni vere. Non mi dilungo sul nostro incontro e su tutto quello che ha provocato. Nonostante le mie fortissime resistenze, e la lotta interiore che dovevo affrontare, abbiamo finito per diventare una coppia molto sui generis, però, anche se stavamo bene insieme, capivo perfettamente che lui aveva bisogno di altro. Ha avuto le sue storie, anche importanti, ma poi finivano e tornavamo insieme. Siamo andati avanti così per dieci anni. Io credo che tra noi ci sia un rapporto speciale, ma penso anche che questo rapporto possa essere per lui un condizionamento pesantissimo, e l’ho sempre pensato. Ieri sera ci siamo visti e ho notato che era nervosissimo e aggressivo nei miei confronti, mi ha rimproverato di mille cose, ed erano rimproveri fondati, poi mi ha detto che aveva bisogno di vivere la vita di un ragazzo normale e che la mia presenza era per lui un ostacolo enorme dal quale avrebbe voluto liberarsi anche se non ci riusciva, il discorso era molto serio, io non sapevo che dire, lui ha visto che ero proprio a disagio, e mi ha detto che non ce l’aveva con me, che sono una brava persona, ma che se gli voglio bene veramente devo allontanarmi da lui, mi ha proprio detto “aiutami, ti prego, a cambiare strada.” Gli ho promesso che lo farò. Ha cancellato il mio numero dal cellulare e tutti i miei messaggi e mi ha detto di bloccarlo sul telefono e sui media. Gli ho promesso che lo farò. Poi abbiamo fatto l’amore “per l’ultima volta”. Ci siamo lasciati con molta emozione. Era notte alta e l’unica cosa che ho potuto fare, assurda quasi perché riferita a me, mi sono messo a pregare il Padre eterno che lo aiuti, che lo faccia sentire felice, che allontani da lui i momenti di depressione che ogni tanto gli arrivano. Oggi sono solo ma penso soltanto a lui, alla sua felicità, che desidero più di qualsiasi altra cosa. Anche il nostro addio è stato un modo di dirsi che ci si voleva bene, nonostante tutto, e che chi veramente vuole bene all’altro, deve accettare di farlo andare per la sua strada. È stata l’unica storia d’amore della mia vita e mi sono sentito amato. Continuerò a pensare a lui e a pregare per lui, anche se indegnamente. È stato la luce della mia vita e lo è stato anche nel dirmi addio.

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PENSIERI DI UN VECCHIO (GAY)

Comprendo che quello che scriverò non incontrerà il consenso di parecchie persone, parlo specialmente delle persone più giovani, ma, dal punto di vista del vecchio gay, quanto sto per dire corrisponde ad un’esperienza reale.

I gay che sono giovani oggi, hanno un background culturale molto diverso da quello dei gay della mia generazione, sono cresciuti in un mondo più libero, in cui la ricerca della propria felicità era almeno un’ipotesi possibile, per me e per molti della mia generazione non è stato così, e il risultato di tutto questo, che si avvertiva meno nelle età intermedie della vita, pesa invece significativamente nella vecchiaia, perché, salvo rare eccezioni, un gay della mia generazione ha di fonte a sé una vecchiaia di solitudine. Era in fondo un destino atteso fin dall’inizio e accettato come tutto ciò che è inevitabile, ma con l’andare degli anni questo destino appare sempre meno facile da gestire.

Un etero aveva davanti a sé un progetto di vita basato sull’idea della famiglia, idea che comporta certo problemi e difficoltà ma sono problemi a difficoltà legati comunque alla vita di coppia e ai rapporti familiari, in questi casi la solitudine è talvolta un desiderio di fuga ma non è certo una condizione imposta.

Oggi è concepibile l’idea di famiglia gay, o almeno di coppia gay, quarant’anni fa non lo era: non c’era internet, non c’erano i telefonini, e i messaggi si mandavano per espresso, e l’espresso, che impiegava tre giorni per essere recapitato, poteva finire in mani sbagliate e non c’erano password che potessero proteggere la privacy. Le possibilità di conoscere altri ragazzi gay erano minime se non nulle, perché il coming out equivaleva all’esclusione sociale e familiare definitiva, i rischi della comunicazione erano enormi e in sostanza la possibilità di costruire un rapporto erano affidate esclusivamente alla conoscenza personale e ad un’esplorazione lentissima e prudentissima che nella stragrande maggioranza dei casi portava solo a pie illusioni, destinate per giunta a durare anni.

Un gay della mia generazione sapeva in pratica molto bene e fin dall’inizio che le possibilità di costruire una vita affettiva conforme ai propri desideri era praticamente nulla e che sarebbe stato necessario spendere la vita in qualche cosa di alternativo che aiutasse a darle un senso comunque serio, anche se come scelta di ripiego, le ipotesi classiche erano il perseguimento di una carriera importante e di prestigio, il farsi prete per poter comunque dedicare la vita al prossimo evitando di pensare ad altro, o la scuola che avrebbe comunque permesso di mantenere un rapporto con quel mondo giovane il cui fascino era all’epoca insopprimibile.

Poi gli anni passano, gli ideali di prestigio sociale svaniscono, la chiesa, che sembrava una via di salvezza, comincia ad apparire come una trappola dalla quale non si potrebbe comunque uscire e lo scarto generazionale con i giovani si fa abissale e con questo vengono meno anche gli interessi.

Che cosa ci resta di gay, più o meno frustrato? La risposta e semplice: non ci resta niente e allora si comincia a valorizzare, anche con gli amici gay, tutti quei contenuti che non hanno nulla di gay, in pratica li si considera buoni amici per fare due chiacchiere o per prendere una pizza nonostante il fatto che siano gay, che alla fine diventa una questione del tutto accessoria.

L’omosessualità, oltre una certa età, più che una questione di identità personale diventa una questione di principio, o meglio un aspetto particolare del problema globale dei diritti umani, in pratica una questione astratta.

Quando anche i 60 sono lontani e ci si avvicina piano piano ai 70, le prospettive cambiano, le difficoltà di dialogo aumentano sia con le persone più giovani che con i coetanei. Le spinte di base alla socialità vengono meno e l’abitudine sostituisce l’interesse.

Io penso che per un etero che ha figli e nipoti le prospettive siano diverse, perché c’è a protezione la rete dei rapporti familiari. Per un gay ci può essere il cane, ci possono essere le piante, poi qualche hobby e poi il dover fare i conti con la pensione che non basta mai e con le malattie che sono l’unica cosa che appartiene realmente al vecchio.

Non so come sarebbe stato essere etero e non ho mai desiderato di non essere gay. Ora davanti a me c’è la vecchiaia, non dico la vecchiaia gay ma le vecchiaia in solitudine. Qualche soddisfazione c’è ancora… e a me, tutto sommato, è andata bene.

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