LEGGE ANTI OMOFOBIA, UNA RISPOSTA A PIERO OSTELLINO

Premetto che leggo spesso il Corriere della sera e ho apprezzato in molte occasioni le analisi politiche di Piero Ostellino, quanto segue non ha quindi nessuna finalità polemica nei suoi confronti, vorrei solo proporgli delle riflessioni sul suo articolo “Gli errori della legge anti omofobia”, pubblicato dal Corriere della sera il 3 Agosto 2013, partendo dalle esperienze di un gay come me, maturate attraverso il contatto quotidiano con persone gay di tutte le età.

Nell’articolo si legge “non riesco a capire perché picchiare un omosessuale sarebbe un’aggravante, mentre picchiare me – che sono “solo” un essere umano – sarebbe meno grave”. L’obiezione è di principio, mi permetto di rispondere con dati di fatto – non presupponendo, come fa Ostellino, che il mondo sia fatto di persone dotate di normale senso comune per le quali l’omosessualità non è nemmeno un “vizio”-.

Purtroppo, come Ostellino sa benissimo, alcune categorie di persone, che in una società di persone di normale buon senso sarebbero trattate come tutte le altre, nella nostra Italia non sono affatto trattate come tutte le altre.

L’esempio dello spaventoso numero dei femminicidi, secondo una logica giuridica che guardi alla realtà, non dovrebbe portare all’idea che dato che in un paese di persone di normale buon senso le donne dovrebbero essere trattate come tutte le altre persone, allora è bene che non ci sia una norma penale specifica a tutela delle donne, dovrebbe invece condurre alla conclusione opposta e cioè che, dato che le donne sono una categoria di persone che di fatto è frequentemente vittima di delitti, è giusto che godano di una tutela penale rafforzata.

Seguendo la logica proposta da Ostellino (“l’espansione indiscriminata dei diritti comporta più rischi che vantaggi”) si dovrebbe richiedere l’abolizione di tutte le tutele speciali introdotte dalla legge Mancino contro le discriminazioni razziali, etniche e religiose, cosa che Ostellino non fa, limitandosi a suggerire la rischiosità di estendere la tutela anche agli omosessuali.

Chi vive da molti anni a diretto contatto con omosessuali di tutte le età sa bene che la discriminazione è reale e che purtroppo si arriva spesso a vere aggressioni di tipo omofobo.

Ostellino sostiene che l’omosessualità non è un diritto e che “trasformarla in un diritto giuridicamente protetto non ha alcun senso” perché “ad una persona di normale buon senso non verrebbe mai in mente, nel mondo in cui viviamo, non dico di picchiare, ma neppure di insultare e di discriminare l’omosessuale”.

In effetti seguendo questa logica, siccome ad una persona di normale buon senso non verrebbe mai in mente di uccidere o di stuprare, l’omicidio e lo stupro non avrebbero bisogno di nessuna tutela penale.

Certamente l’omosessualità non è un diritto in sé ma essere omosessuale senza essere discriminato costituisce l’esercizio di un diritto generale di libertà, la legge a tutela dei cosiddetti diritti dei gay è solo una legge a tutela del diritto di libertà di tutti e trova la sua motivazione proprio nel fatto che gli omosessuali sono, purtroppo, spesso oggetto di discriminazione e anche di violenza, certo non da parte “delle persone di normale buon senso” ma da parte di quella consistente percentuale di persone che di quel normale buon senso è terribilmente carente.

La sanzione penale specifica dei comportanti omofobi deriva dal fatto che gli omosessuali sono oggettivamente molto più soggetti di altre categorie di persone all’aggressività delle persone carenti di normale buon senso.

Ho inviato questa risposta per e-mail a Piero Ostellino e confido in una sua risposta.

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http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=20&t=3748

CHIESA E GAY – LA LIBERTA’ DI DISCRIMINARE

Anche questa mattina, in un dibattito televisivo circa la legge anti-omofobia, un esponente di area cattolica ha ripetuto le sue obbiezioni, cioè quelle delle chiesa, nel confronti dell’approvazione della legge contro l’omofobia, sottolineando che una legge che includesse, come fa la legge Mancino per l’odio razziale o per le discriminazioni religiose, anche il divieto di propaganda, cioè in pratica vietasse con sanzioni penali di manifestare opinioni false e discriminatorie, sarebbe una lesione del diritto alla libertà di parola, ma aggiungeva che l’omosessualità e una malattia che si può curare con il ricorso alle terapie riparative.

Evidentemente questa persona non sa di che cosa sta parlando e ripete tesi palesemente smentite da decenni dalla organizzazione mondiale della sanità e dagli ordini degli psicologi e aggiunge che la legge contro l’omofobia è inaccettabile perché ha dietro una finalità che è quella di muovere l’opinione pubblica verso l’approvazione delle nozze omosessuali, cosa che a questa persona pare assolutamente contro natura.

Cerchiamo di capire che cosa dice veramente la legge Mancino

http://www.governo.it/Presidenza/USRI/confessioni/norme/dl_122_1993.pdf

DECRETO LEGGE 26 aprile 1993, n. 122, coordinato con la legge di conversione 25 giugno 1993, n. 205, recante: “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”. 

Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa.

Articolo 1 

Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

1. L’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è sostituito dal seguente:

“Art. 3. – 1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:

a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

2. (soppresso dalla legge di conversione).

3. E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiose. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.”.

1-bis. Con la sentenza di condanna per uno dei reati previsti dall’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654(1), o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, il tribunale può altresì disporre una o più delle seguenti sanzioni accessorie:

a) obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità, secondo le modalità stabilite ai sensi del comma 1-ter;

b) obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno;

c) sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti di identificazione validi per l’espatrio per un periodo non superiore ad un anno, nonché divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere;

d) divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni.

1-ter. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Ministro di grazia e giustizia determina, con proprio decreto, le modalità di svolgimento dell’attività non retribuita a

favore della collettività di cui al comma 1-bis, lettera a).

1-quater. L’attività non retribuita a favore della collettività, da svolgersi al termine dell’espiazione della pena detentiva per un periodo massimo di dodici settimane, deve essere determinata dal giudice con modalità tali da non

pregiudicare le esigenze lavorative, di studio o di reinserimento sociale del condannato.

1-quinquies. Possono costituire oggetto dell’attività non retribuita a favore della collettività: la prestazione di attività lavorativa per opere di bonifica e restauro degli edifici danneggiati con scritte, emblemi o simboli propri o usuali

delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui al comma 3 dell’art. 3, L. 13 ottobre 1975, n. 654; lo svolgimento di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, quali quelle operanti nei confronti delle persone handicappate, dei tossicodipendenti, degli anziani o degli extracomunitari; la prestazione di lavoro per finalità di protezione civile, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, e per altre finalità pubbliche

individuate con il decreto di cui al comma 1-ter.

1-sexies. L’attività può essere svolta nell’ambito e a favore di strutture pubbliche o di enti ed organizzazioni privati.

Articolo 2 

Disposizioni di prevenzione.

1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è punito con la

pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila.

2. È vietato l’accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il contravventore è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno

3. Nel caso di persone denunciate o condannate per uno dei reati previsti dall’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, o per un reato aggravato ai sensi dell’articolo 3 del presente decreto, nonché di persone sottoposte a misure di prevenzione perché ritenute dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica, ovvero per i motivi di cui all’articolo 18, primo comma, n. 2-bis), della legge 22 maggio 1975, n. 152 si applica la disposizione di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e il divieto di accesso conserva efficacia per un periodo di cinque anni, salvo che venga emesso provvedimento di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento o provvedimento di revoca della misura di prevenzione, ovvero se è concessa la riabilitazione ai sensi dell’articolo 178 del

codice penale o dell’articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327.

Articolo 3 

Circostanza aggravante.

1. Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.

2. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante.

Articolo 4 

Modifiche a disposizioni vigenti. …

Articolo 5 

Perquisizioni e sequestri.

1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell’articolo 3 o per uno dei reati previsti dall’articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, l’autorità giudiziaria dispone la perquisizione dell’immobile rispetto al quale sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l’autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, di deposito o di rifugio o per altre attività comunque connesse al reato. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al (2) Sostituisce il secondo comma dell’art. 4, L. 20 giugno 1952, n. 645. “Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni.” procuratore della Repubblica, il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore.

2. È sempre disposto il sequestro dell’immobile di cui al comma 1 quando in esso siano rinvenuti armi, munizioni, esplosivi od ordigni esplosivi o incendiari, ovvero taluni degli oggetti indicati nell’articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110. É sempre disposto, altresì, il sequestro degli oggetti e degli altri materiali sopra indicati nonché degli emblemi, simboli o materiali di propaganda propri o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alle leggi 9

ottobre 1967, n. 962, e 13 ottobre 1975, n. 654, rinvenuti nell’immobile. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 324 e 355 del codice di procedura penale. Qualora l’immobile sia in proprietà, in godimento o in uso esclusivo a

persona estranea al reato, il sequestro non può protrarsi per oltre trenta giorni.

3. Con la sentenza di condanna o con la sentenza di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale, il giudice, nei casi di particolare gravità, dispone la confisca dell’immobile di cui al comma 2 del presente articolo, salvo che lo stesso appartenga a persona estranea al reato. É sempre disposta la confisca degli oggetti e degli altri materiali indicati nel medesimo comma 2.

Articolo 6 

Disposizioni processuali.

1. Per i reati aggravati dalla circostanza di cui all’articolo 3, comma 1, si procede in ogni caso d’ufficio.

2. Nei casi di flagranza, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di procedere all’arresto per uno dei reati previsti dai commi quarto e quinto dell’articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110, nonché, quando ricorre

la circostanza di cui all’articolo 3, comma 1, del presente decreto, per uno dei reati previsti dai commi primo e secondo del medesimo articolo 4 della legge n. 110 del 1975 2-bis. All’articolo 380, comma 2, lettera l), del codice di procedura penale, sono aggiunte, in fine, le parole: «, delle organizzazioni, associazioni,

movimenti o gruppi di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654»

3. Per i reati aggravati dalla circostanza di cui all’articolo 3, comma 1, che non appartengono alla competenza della corte di assise è competente il tribunale.

4. Il tribunale è altresì competente per i delitti previsti dall’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654

5. Per i reati indicati all’articolo 5, comma 1, il pubblico ministero procede al giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dall’articolo 449 del codice di procedura penale, salvo che siano necessarie speciali indagini.

6. Soppresso

Articolo 7 

Sospensione cautelativa e scioglimento.

1. Quando si procede per un reato aggravato ai sensi dell’articolo 3 o per uno dei reati previsti dall’articolo 3, commi 1, lettera b), e 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 o per uno dei reati previsti dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l’attività di organizzazioni, di associazioni, movimenti o gruppi favorisca la commissione dei medesimi reati, può essere disposta cautelativamente, ai sensi dell’articolo

3 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, la sospensione di ogni attività associativa. La richiesta è presentata al giudice competente per il giudizio in ordine ai predetti reati. Avverso il provvedimento è ammesso ricorso ai sensi del quinto comma del medesimo articolo 3 della legge n. 17 del 1982.

2. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengono meno i presupposti indicati al medesimo comma.

3. Quando con sentenza irrevocabile sia accertato che l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi abbia favorito la commissione di taluno dei reati indicati nell’articolo 5, comma 1, il Ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, ordina con decreto lo scioglimento dell’organizzazione, associazione, movimento o gruppo e dispone la confisca dei beni. Il provvedimento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

Articolo 8

Disposizioni finali.

1. Il settimo comma dell’articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110, è abrogato.

2. Le disposizioni dei commi da 1 a 5 dell’articolo 6 si applicano solo per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Articolo 9 

Entrata in vigore.

1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge.

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In estrema sintesi la legge Mancino prevede che sia punito:

a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; 

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; 

Se la legge Mancino fosse estesa anche all’omofobia la legge prevedrebbe la reclusione per chi (Comma 1 modificato) “in qualsiasi modo” diffonde idee fondate sulla superiorità di un orientamento sessuale sull’altro o sull’odio per motivi di orientamento sessuale o incita a commettere atti di discriminazione per motivi di orientamento sessuale, e per chi (Comma 2 modificato) “in qualsiasi modo” incita a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivazioni omofobe.

Non è certo tipico dei gruppi cattolici incitare a commettere violenza o provocare la violenza, almeno nel senso stretto che questi termini hanno nel codice penale, quindi il mondo cattolico non teme certo la modifica del comma 2, mentre la modifica del comma 1 incriminerebbe la condotta di chi “in qualsiasi modo” diffonda idee fondate sulla superiorità di un orientamento sessuale sull’altro o sull’odio per motivi di orientamento sessuale o inciti a commettere atti di discriminazione per questo motivi. E qui i cattolici vedono una limitazione della libertà di parola. In altri termini, secondo loro, diffondere idee fondate sulla superiorità di un orientamento sessuale sull’altro o sull’odio per motivi di orientamento sessuale o incitare a commettere atti di discriminazione per questi motivi è parte delle libertà fondamentali garantite dalla costituzione.

Non c’è bisogno di sottolineare che nell’imminenza della discussione della legge, che sarà comunque una legge minimalista rispetto a provvedimenti analoghi di altri stati d’europa, la chiesa sta tentando in ogni modo di accreditare punti di vista che non troverebbero credito in nessun paese civile.

Vi segnalo un articolo del Corriere della Sera (http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/notizie/cronaca/2013/19-agosto-2013/a-bisceglie-bufera-chiesa-arcigay-azione-cattolica-accusata-omofobia-2222672886123.shtml) Leggete l’articolo e potrete farvi un’idea dei livelli a cui si arriva.

E’ evidente che la chiesa non vuole una legge seria contro l’omofobia perché nel documenti pontifici si tratta di omosessualità come di “grave depravazione”, “funesta conseguenza di un rifiuto di Dio”, “mancanza di evoluzione sessuale normale”, “costituzione patologica”, “comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale”. Non è omofobia questa? A qualcuno sembra solo libertà di parola, anche se si tratta di forme di istigazione all’odio sulla base di puri pregiudizi. Le terapie riparative sono proposte e sostenute da personaggi legati alla chiesa.

Sarebbe ora di vedere finalmente la dignità di uno stato laico che assume le sue decisioni in termini di diritto senza farsi condizionare da presupposti ideologici profondamente immorali, che sono un insulto alla libertà e una grave mancanza di rispetto nei confronti del prossimo.

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CHIESA, LIBERTA’ E MORALE LAICA

La morale laica non è un insieme di precetti o di divieti, non è un codice morale destinato a sostituire un altro codice morale ma è un metodo che si prefigge di garantire la convivenza, la libertà e l’uguaglianza degli individui nei rapporti sociali partendo dall’idea che la libertà è il valore sociale fondamentale, cioè l’unico valore sul quale si deve fondare una società di uomini liberi e che le limitazioni della libertà sono giustificabili solo in funzione della tutela della libertà altrui.

La morale laica non ha nulla a che vedere con le morali particolari, non è giustificata sulla base di nessuna autorità ma deriva dalla libera accettazione del principio fondante, ossia dell’idea che la libertà sia il diritto fondamentale e incondizionato di tutti.

In una visione laica, a livello sociale, non esistono morali vere, secondo natura o secondo ragione e non esistono autorità morali, questi concetti sono tipici delle morali particolari.

Una morale laica è per sua natura relativistica nel senso che, se è lasciata comunque al singolo la massima libertà di coscienza e la responsabilità piena del suo agire morale, sempreché si resti nell’ambito del rispetto della libertà altrui, la scelta del singolo è solo sua, non può essere normativa per nessuno e non è sottoposta al giudizio di nessuno.

Il relativismo è una visione non dogmatica e non pregiudiziale della morale, non è un principio per il quale qualsiasi codice morale può essere ugualmente valido, è anzi un modo di porsi di fronte ai contenuti e ai comportamenti morali con occhio attento all’unico aspetto socialmente rilevante, cioè alla dimensione di libertà.

Non qualunque codice morale o qualunque comportamento può essere ammesso in una società libera, cioè laica, ma soltanto i codici e i comportamenti morali che rispettano integralmente la libertà altrui potranno trovarvi accoglienza.

Nessuna predicazione di discriminazione, di violenza, di omofobia o di odio razziale, nessuna condanna a priori di fatti o per fatti che non siano oggettivamente lesivi della libertà altrui, nessun privilegio comunque giustificato è compatibile con una morale laica perché queste cose non sono rispettose della libertà altrui.

Nessun potere di limitare la libertà di altre persone, neppure nell’ambito della stessa famiglia, può moralmente essere riconosciuto a nessuno per motivi diversi da quelli che la legge riconosce sulla base di un interesse oggettivo collettivo.

Nessuna mutilazione (circoncisione, infibulazione) può essere praticata per nessuna ragione su persona minorenne o su persona maggiorenne senza il suo esplicito consenso. Nessuna imposizione (sposarsi/non sposarsi, scelta del coniuge, scelta di avere figli, scelta di limitare determinatamente le gravidanze) può essere imposta a nessuno per nessuna ragione. Questi sono solo alcuni esempi di contenuti morali assolutamente incompatibili con la libertà di tutti che è l’unico valore che uno stato laico deve garantire.

In una visione laica della società, per tutte le condizioni che afferiscono alla sfera privata dei singoli deve essere garantita la massima libertà: aderire ad una religione o abbandonarla liberamente senza che ne derivi pregiudizio alcuno, aderire ad un partito politico e abbandonarlo liberamente senza che ne derivi pregiudizio alcuno, seguire il proprio orientamento sessuale, sposarsi o non sposarsi, avere o non avere figli, ecc..

Alcune questioni meritano un chiarimento. Sono ammesse delle limitazioni per gli aderenti ad una o ad un’altra confessione religiosa? La risposta è ovviamente sì, con la condizione che da quella confessione religiosa si possa comunque uscire liberamente, senza alcuna formalità e senza alcun pregiudizio. Il sacrificio temporaneo della libertà del singolo, consciamente e liberamente voluto, non viola la libertà di quel singolo se il sacrificio può aver termine in ogni momento, senza formalità e senza danno, si tratta anzi di un esercizio di libertà individuale. Non è invece moralmente accettabile una scelta definitiva e senza ritorno, come quella di pronunciare voti perpetui rinunciando in via definitiva ad alcuni dei propri diritti, senza la possibilità di tornare indietro quando se ne avverte le necessità. Le rinunce alla libertà non posso essere ammesse se irrevocabili. Questo significa che non è possibile pronunciare voti perpetui di rinuncia ad alcuni dei propri diritti? No. Ciò significa solo che la legge non può continuare ad annettere valore legale ad atti compiuti a seguito della pronuncia dei voti se essi sono revocati. Se una persona pronuncia i voti e a seguito dei voti i suoi beni passano ad altri, alla revoca dei voti deve conseguire di diritto il rientro dei beni nella sfera del primitivo titolare. Il che significa che i beni ceduti a seguito della pronuncia dei voti devono restare inalienabili finché è in vita la persona che ha pronunciato i voti e che fino ad allora ne viene trasferito solo il diritto di usufrutto. Se così non fosse la pronuncia dei voti si trasformerebbe in un atto potenzialmente fortemente limitativo della libertà individuale nel futuro, cosa che è moralmente inaccettabile, sarebbe cioè una trappola dalla quale è impossibile uscire se non con grave danno.

La legislazione di uno stato laico non può entrare nelle questioni relative alla sfera morale privata del singolo se non per garantire che i comportamenti conseguenti alle convinzioni individuali siano comunque compatibili con la libertà altrui.

La legislazione di uno stato laico deve prescindere completamente dalle morali individuali e deve limitarsi a garantire la libertà di tutti. Le norme devono essere essenziali, non devono avere finalità moralizzatrice ma devono essere garanzia generale di libertà. Proprio per il fatto che la legge non può entrare in questioni morali, non può essere ammessa alcuna obiezione di coscienza, perché le restrizioni alla libertà dei singoli imposte dalla legge sono finalizzate esclusivamente alla tutela della libertà di tutti e quindi l’obiezione di coscienza sarebbe di fatto una limitazione della libertà altrui, che è il valore fondamentale contro la quale, in una società laica non può essere ammessa nessuna obiezione. Chi non accettasse questo principio può uscire dalla società laica, dalla quale non si sente rappresentato, e aderire ad ordinamenti che subordinano la libertà ad altri valori.

In uno stato laico i segni esterni di una appartenenza religiosa, politica o di qualsiasi altra natura non sono ammessi nei locali pubblici, ovviamente sono sempre legittimi nei luoghi privati o aperti al pubblico.

Uno stato laico non sigla concordati con alcuna confessione religiosa e per nessun motivo e non entra a nessun livello in questioni connesse alla religione o alla morale individuale, deve invece occuparsi di tutelare attivamente la libertà di aderire a tutte le confessioni e di recedere senza alcuna condizione e senza alcun danno.

Il principio di laicità dello stato si manifesta in modo peculiare nell’evitare qualunque sovrapposizione tra il concetto di delitto, che è un concetto giuridico e il concetto di peccato, che è un concetto morale.

I delitti sono repressi e puniti un una società laica in quanto violano la sfera di libertà altrui privando altri dei loro diritti. La punizione di un delitto non è conseguenza di alcuna prescrizione morale ma è motivata da ragioni sociali profonde di libertà e di uguaglianza. L’esempio tipico di delitto è l’assassinio.

I peccati sono delle violazioni di un codice morale particolare al quale si annette a livello individuale o di confessione religiosa un valore di origine sacrale. L’esempio tipico del peccato è la violazione del comandamento “Non desiderare la donna d’altri” che condanna anche il solo desiderio, cioè qualcosa che di per sé non è minimamente lesiva della libertà altrui e che quindi non solo non è un delitto ma afferisce alla libertà del singolo ed è del tutto indifferente per la collettività.

A nessuno è concessa la facoltà di perdonare un delitto, neppure alla vittima dello stesso delitto, perché un delitto è un comportamento aggressivo nei confronti dei principi di fondo del vivere sociale, non si può quindi essere perdonati o assolti dai propri delitti da nessuno e per nessuna ragione. Si può invece essere perdonati o assolti dai peccati in nome dell’autorità che ha fissato il principio morale particolare che è stato violato. Ovviamente si tratta di realtà che non hanno niente in comune. La categoria di delitto è valida per tutti i componenti di una società laica, quella di peccato è valida esclusivamente per quelli che aderiscono a una determinata confessione religiosa e alla sua morale particolare.

Le riflessioni sin qui svolte sull’idea di libertà come fondamento del vivere civile e sulla distinzione tra delitto e peccato sono magistralmente riassunte da Gaetano Salvemini [Lettere dall’America 1947-1949 (epistolario con Ernesto Rossi)]: “Tutti in Italia sembrano aver dimenticato che la libertà non è la mia libertà, ma la libertà di chi non la pensa come me. Un clericale non capirà mai questo punto, né in Italia, né in nessun altro Paese del mondo. Il clericale non arriverà mai a capire la distinzione fra peccato e delitto, fra quello che lui crede peccato e quello che la legge secolare ha il dovere di condannare come delitto. Il clericale punisce il peccato come se fosse delitto e perdona il delitto come se fosse peccato. Il clericale non è mai uscito dall’atmosfera dei 10 comandamenti, nei quali il rubale e l’uccidere (delitti) sono messi sullo stesso livello del desiderare la donna d’altri (peccato).”

Una questione estremamente delicata è costituita dalla libertà religiosa, sulla quale si è concentrata l’attenzione di papa Benedetto XVI in particolare nel Discorso al Corpo Diplomatico di Lunedì, 10 gennaio 2011 (http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi//speeches/2011/january/documents/hf_ben-xvi_spe_20110110_diplomatic-corps_it.html): “…non vi sono forse numerose situazioni nelle quali, purtroppo, il diritto alla libertà religiosa è leso o negato? Questo diritto dell’uomo, che in realtà è il primo dei diritti, perché, storicamente, è stato affermato per primo, e, d’altra parte, ha come oggetto la dimensione costitutiva dell’uomo, cioè la sua relazione con il Creatore, non è forse troppo spesso messo in discussione o violato? Mi sembra che la società, i suoi responsabili e l’opinione pubblica si rendano oggi maggiormente conto, anche se non sempre in modo esatto, di tale grave ferita inferta contro la dignità e la libertà dell’homo religiosus, sulla quale ho tenuto, a più riprese, ad attirare l’attenzione di tutti.” … “i cristiani sono cittadini originali e autentici, leali alla loro patria e fedeli a tutti i loro doveri nazionali. E’ naturale che essi possano godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell’insegnamento e dell’educazione e nell’uso dei mezzi di comunicazione” …“Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente, ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale. Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto.” … “Proseguendo la mia riflessione, non posso passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione.”

Se analizziamo il concetto di libertà religiosa come emerge dalla parole di Benedetto XVI possiamo rilevare che il diritto alla libertà religiosa è considerato “il primo dei diritti” ma, come chiarito da Salvemini, non si tratta né della Libertà senza aggettivi, né della libertà religiosa laicamente intesa, cioè della libertà paritaria di tutte le religioni, ma piuttosto della libertà di essere cattolici, va sottolineato che si rivendica per i cattolici la libertà di coscienza e di culto, la libertà nel campo dell’insegnamento, dell’educazione e nell’uso dei mezzi di comunicazione. Si tratta in realtà di libertà delicatissime perché il riconoscimento della totale libertà di coscienza significa in pratica riconoscere al cattolico il diritto di non obbedire alla legge quando la sua coscienza, in questo caso il particolare codice morale della sua confessione religiosa, è in contrasto con la legge, cioè significa garantire il primato di una morale confessionale particolare sulla legge. Ricordo che lo stesso Benedetto XVI invitava i cattolici ad impegnarsi per impedire l’accesso all’insegnamento agli omosessuali e per non fare approvare il riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Se si lasciasse alle morali particolaristiche delle singole confessioni religiose la decisione su questioni che interessano tutti la Libertà sarebbe tranquillamente assoggettata a principi incompatibili con l’esercizio della Libertà di tutti. Ma il papa reclama piena libertà di azione anche sul piano dell’insegnamento, dell’educazione e dei mezzi di comunicazione, ambiti in cui lo stato non può e non deve delegare nulla a nessuno. L’educazione confessionale non può in nessun caso sostituire un’educazione laica e pluralista. Educare significa prima di tutto fornire visioni non pregiudiziali della realtà, significa mettere le persone a contatto con la realtà in modo che possano imparare e giudicare da sé superando i pregiudizi. Proprio perché l’educazione ha un valore enorme nella formazione della persona essa deve avvenire in un contesto pluralista, e in questo senso laico, in cui la regola fondamentale sia il confronto con la realtà al di là delle ideologie e dei pregiudizi di valore. È significativo che il papa consideri l’obbligo di partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile un attentato alla libertà religiosa, si badi bene, non delle persone ma della famiglie, perché è proprio attraverso l’educazione sessuale confessionale che le religioni perpetuano il loro potere impedendo di fatto l’accesso dei ragazzi a visioni laiche o comunque diverse della sessualità. Un discorso del tutto analogo vale per i mezzi di comunicazione di massa. Spetta allo stato il compito primario della lotta contro l’ignoranza e le sottoculture, contro la superficialità e l’assenza di spirito critico. In questo ambito le confessioni religiose hanno libertà di espressione ma in nessun caso può essere permessa una istruzione uniformemente permeata da valori di tipo confessionale, che costituirebbe un vero e proprio lavaggio del cervello e un attentato alla libertà individuale in nome della libertà religiosa. I ragazzi che crescono devono poter confrontare messaggi diversi e diverse interpretazioni della realtà per formarsi un proprio punto di vista. Va sottolineato che la libertà di religione non può diventare la libertà di creare strutture di potere alternative a quelle istituzionali con fini e modi di procedere non rispettosi della libertà altrui e che alla libertà di religione corrisponde una libertà laica di critica alle confessioni religiose che non possono godere di particolari tutele, come, in una società veramente laica, non può goderne nessun gruppo particolare.

La Costituzione della Repubblica Francese entrata in vigore nel 1958 comincia così:

Articolo 1 – La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le convinzioni. La sua organizzazione è decentrata.

Come si vede la laicità dello stato è affermata esplicitamente nell’art. 1 della Costituzione.

Nella Costituzione Italiana la laicità non è mai nominata, e l’art. 7 costituzionalizza il Concordato con la Santa Sede:

Art.7 – Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

La Corte Costituzionale si è data da fare per riconoscere in via interpretativa un principio di Laicità dello stato in nome del quale però lo stato finisce per limitare di fatto i propria sovranità anche in una realtà che è oggettivamente lontanissima dalla laicità. Per un’attenta disamina della questione rinvio al saggio “Il principio di laicità nella costituzione italiana ed in quella europea”. http://rivista.ssef.it/site.php?page=20050502135352251&edition=2010-02-01

Concludo con una citazione. Così scrive di sé Ernesto Rossi: “Io appartengo alla sparutissima schiera di coloro che credono ancora sia dovere di ogni uomo civile prendere la difesa dello Stato laico contro le ingerenze della Chiesa in Parlamento, nella scuola, nella pubblica amministrazione, e ritengono che quest’obiettivo sia, nel nostro paese, più importante di qualsiasi altro – politico, giuridico o economico – in quanto il suo conseguimento costituirebbe la premessa indispensabile per qualsiasi seria riforma di struttura ” (E. Rossi, da Il sillabo e dopo)

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INSEGNARE NELLE SCUOLE UNA MORALE LAICA

Il ministro francese dell’Educazione, Vincent Peillon, ha mantenuto la promessa di avviare, a partire dall’anno scolastico 2014-2015, l’insegnamento di “morale laica” ad ogni livello di istruzione, dalla scuola primaria ai licei.

Peillon parla esplicitamente di “morale laica” e di “insegnamento laico della morale” a partire dai grandi ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, che sono le fondamenta della repubblica francese. (http://www.lemonde.fr/ecole-primaire-et-secondaire/article/2013/04/22/vincent-peillon-cree-un-enseignement-de-morale-laique-du-cp-a-la-terminale_3164055_1473688.html)

Il 91% del francesi si dichiara favorevole all’iniziativa e il 48% addirittura molto favorevole. La Repubblica Francese vuole impegnarsi ad essere il primo attore nella trasmissione della morale laica sulla quale essa stessa si fonda, non una morale antireligiosa, ma una morale non dogmatica, di integrazione e di uguaglianza.

Il ministro è molto chiaro nell’enunciazione degli obiettivi che si propone, in sostanza bisogna legittimare anche legalmente gli insegnati a trasmettere valori e principi che possano essere generali, rispettosi di tutti e scevri da ogni forma di confessionalità.

Quando ho provato ad illustrare il senso della proposta del ministro Peillon ad alcuni insegnanti Italiani mi sono sentito rispondere che anche in Italia c’è qualcosa di simile e precisamente il nuovo insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”.

Assai incuriosito di questa novità sono andato a documentarmi sugli atti ufficiali e ho trovato la nota PROT. N. AOODGOS 2079 DEL 4 MARZO 2009 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a firma dell’allora Ministro Maria Stella Gelmini (http://iostudio.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/9cfcb376-08d0-11de-873d-bf246490dfd1/Documento%20di%20indirizzo%20Citt%20e%20Cost%20def..pdf), un ponderoso documento di 26 pagine che prende in esame tutti i precedenti legislativi e, dopo un profluvio di parole, arriva finalmente a definire nuclei tematici e obiettivi di apprendimento relativi a Cittadinanza e Costituzione.

Per la scuola primaria (scuola elementare), con un orario di un’ora alla settimana, si prevede di trattare tra l’altro:

– gli enti locali (comune, provincia, città metropolitana, regione) e gli enti territoriali (asl, comunità montane ecc.)

– i segni costituzionali dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica

– la distinzione tra Repubblica e Stato e alcune sue conseguenze

– la tutela del paesaggio e del patrimonio storico del proprio ambiente di vita e della nazione

– i segnali stradali e le strategie per la miglior circolazione di pedoni, ciclisti, automobilisti

– elementi di igiene e di profilassi delle malattie

Per la scuola media si sale di livello e le cose si fanno ancora più serie e si prevede di trattare argomenti come:

– il processo di revisione costituzionale e le leggi costituzionali secondo il Titolo V, sez. II del testo del 1948

– la nuova disciplina degli Statuti delle Regioni

Ecc.ecc.

Per la scuola superiore il livello sale ancora e si prevede di trattare argomenti come:

– le revisioni costituzionali apportate dal 1948 ad oggi

– il processo di formazione, di emanazione e di perfezione delle leggi ordinarie e dei decreti legge

– l’introduzione delle Regioni nel testo costituzionale del 1948 e le ragioni del loro primo avvio solo negli anni settanta

Tutto questo sempre con un carico orario di un’ora alla settimana per un insegnamento che prevede una specifica valutazione disciplinare di ciascun alunno e quindi idonei mezzi di verifica.

Nel ponderoso documento del Ministro Gelmini non compare mai la parola laico né la parola laicità, non compare mai la parola omofobia. Dal documento emerge anche una nota di consapevolezza, quando si dice:

“Il rispetto della legalità, l’osservanza di diritti e di doveri devono essere compresi in termini di valori essenziali e fondanti la possibilità di essere interlocutori protagonisti nell’ambito di un progetto comune e solidale volto allo sviluppo della società più estesa” e si prosegue: “L’ora settimanale dedicata a Cittadinanza e Costituzione non è certo sufficiente a produrre, sulla mera base dei temi che affronta e dei metodi di lavoro coinvolgenti che sappia adottare, risultati di questo tipo. Essi vanno considerati come compito comune ai docenti e ai dirigenti scolastici, nel dialogo allargato con forze potenzialmente educative.”

Ci si chiede a questo punto che cosa debba vedersi dietro il sibillino “forze potenzialmente educative”, certo non si tratta di restituire allo Stato e ai docenti una capacità di trasmettere valori laici al di fuori di qualunque pregiudiziale confessionale. Bisogna ricordarsi che siamo in Italia e non in Francia e che qui la parola laicità non ha pieno diritto di cittadinanza.

Sarebbe ora di girare pagina e di restituire alla Repubblica Italiana un suo carattere di laicità. Non contro qualcuno ma per l’uguaglianza di tutti.

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UNA ANZIANA COPPIA OMOSESSUALE IN PIRANDELLO

Nella IV sezione delle Novelle per un anno di Luigi Pirandello, vi è una novella, la n. 59 “Notizie dal mondo”, in cui senza nessun riferimento esplicito alla omosessualità, si parla della storia di due vecchi amici, più o meno sulla sessantina, che hanno vissuto insieme per anni finché uno dei due non ha commesso l’errore di sposarsi con una donna di 26 anni più giovane. Nonostante il matrimonio, i due anziani hanno continuato a frequentarsi ogni giorno, pur senza più la convivenza. Quello sposato muore pochi anni dopo il matrimonio e l’altro gli dedica un diario, continuando a parlare con lui e a raccontargli le “notizie dal mondo”, notizie squallide di intrighi tra parenti per questioni di interesse con al centro la vedova che recita un ruolo e il fratello di lei che cerca di gestire le cose nel suo personale interesse. L’unico vero rapporto che ha un senso è ormai il rapporto tra l’amico superstite e l’amico defunto. Dai colloqui col defunto si capisce che i due anziani erano tutto uno per l’altro e che l’idea di fare una vita normale prendendo moglie a 56 anni aveva di fatto distrutto l’unico valore della vita di questi due uomini mettendo in crisi il loro rapporto, che aveva comunque resistito allo sconvolgimento, portando uno dei due in una vita che di fatto non era la sua.

Pirandello parla solo di due amici, ma si tratta di due amici anziani che hanno convissuto per anni e non si sono sposati quando avrebbero potuto farlo, di due amici che avevano preso in affitto una casa insieme per poterci vivere insieme e per i quali non c’era nessuna distinzione di mio e tuo, in sostanza si tratta di una coppia e di una coppia consolidata ma, come spesso accade in Pirandello, l’idea di normalità finisce per distruggere una serenità costruita negli anni.

Il testo è lungo e in molti tratti terribilmente malinconico e anche lugubre ma nello sfondo si capisce che, anche se ormai è tutto finito, c’è stata un’epoca felice, o almeno serena in cui questi due amici vivevano realmente uno per l’altro.

http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/04_059.htm

La novella è consigliata soprattutto alle persone di età non giovane.

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ZANARDELLI E LA LAICITA’ DELLO STATO

Girando per i blog e per I forum gay ho trovato molto frequentemente, in questi giorni, post dedicati alla interpretazioni di frasi di apparente apertura del papa verso i gay. Ho cercato di spiegare attraverso una documentazione seria come stiano realmente le cose (GESUITI E GAY http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=3692), sento però l’esigenza di dire con chiarezza che, anche se quello che il papa dice, non dice o sembra dire o non dire condiziona profondamente la vita politica di questo paese per ragioni che, credo, abbiano ben poco a che vedere con la morale, in ogni caso la posizione della chiesa, fosse anche apertissima alla realtà gay, avrebbe comunque oggettivamente per la grande maggioranza dei gay ben poco peso. Il riconoscimento o meno della dignità e della moralità dei gay non è prerogativa di nessuno, meno che mai del papa. La politica dovrebbe avere il coraggio di essere profondamente laica, ossia di non essere subordinata a nessun giudizio esterno e di mettere finalmente da parte gli opportunismi tattici per cominciare a capire che la libertà è un valore irrinunciabile. In buona sostanza la libertà delle persone, nei limiti in cui non danneggia altre persone – parliamo di danni reali, non di mere presunzioni – deve essere un valore assoluto che non può essere subordinato ad alcuna categoria morale a priori. Tutti sono liberi di seguire la loro morale a patto che non pretendano di imporla agli altri, sia che ciò avvenga per motivi religiosi, politici o morali o per qualsiasi altro motivo.

Mi è gradito ricordare qui un personaggio politico d’altri tempi dal quale si dovrebbe prendere esempio, parlo di Giuseppe Zanardelli, un laico nel senso forte del termine, un massone (come Garibaldi e come Carduccci) certo non gradito alla chiesa, di cui non si conosce la vita amorosa ma che quando lo si interpellava sul punto amava definirsi “lo sposo della libertà”. A Zanardelli si deve il primo codice penale dell’Italia unita. Un codice in cui l’omosessualità non compare né come delitto né come aggravante di altri delitti. Così Zanardelli si esprime nella Relazione sul primo Codice penale per il Regno d’Italia [1887], Titolo VIII “Delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie”: “Nel determinare i fatti da comprendersi nel presente Titolo, il Progetto attuale, in conformità ai precedenti, si ispira a questo concetto fondamentale che, se occorre da un lato reprimere severamente i fatti dai quali può derivare alle famiglie un danno evidente ed apprezzabile o che sono contrarii alla pubblica decenza, d’altra parte occorre altresì che il legislatore non invada il campo della morale. In conseguenza, le sanzioni penali del Progetto non colpiscono tutti indistintamente i fatti che offendono il buon costume e l’ordine delle famiglie, ma quelli soltanto che si estrinsecano coi caratteri della violenza, dell’ingiuria, della frode o dello scandalo, la repressione dei quali è più vivamente reclamata nell’interesse sociale. Quindi non sono incriminate le azioni che non hanno quei caratteri, e l’indagine delle quali farebbe trascendere oltre i suoi giusti confini l’opera legislativa.”

Alla personale iniziativa di Zanardelli e al suo strenuo impegno si deve l’eliminazione della pena di morte del codice penale. Il Codice Zanardelli legittima lo sciopero, che per la prima volta non è di per sé oggetto di sanzione penale in nessun caso.

Il Codice Penale Zanardelli http://archive.org/stream/ilcodicepenalep01crivgoog#page/n13/mode/2up proprio perché caratterizzato da una sostanziale laicità, accanto alla tutela dei culti religiosi e dei ministri di culto, prevede anche la punibilità degli abusi commessi dai ministri di culto in tre articoli 182-183-184 che costituiscono il Capo V “Degli abusi dei ministri dei culti nell’esercizio delle proprie funzioni”

Art. 182 – Il ministro di un culto, che, nell’esercizio delle sue funzioni, pubblicamene biasima o vilipende le istituzioni, le leggi dello Stato o gli atti dell’Autorità è punito con la detenzione sino ad un anno e con la mula sino a lire mille.

Art. 183 – Il ministro di un culto, che, prevalendosi della sua qualità, eccita al dispregio delle istituzioni, delle leggi o delle disposizioni dell’Autorità, ovvero all’inosservanza delle leggi, delle disposizioni dell’Autorità o dei doveri inerenti ad un pubblico ufficio, è punito con la detenzione da tre mesi a due anni, con la multa da lire cinquecento a tremila e con l’interdizione perpetua o temporanea dal beneficio ecclesiastico. Se il fatto sia commesso pubblicamente, la detenzione può estendersi sino a tre anni.

Alle stesse pene soggiace il ministro di un culto, che, prevalendosi della sua qualità, costringe o induce alcuno ad atti o dichiarazioni contrarie alle leggi, o in pregiudizio dei diritti in virtù di esse acquistati.

Art. 184 – Quando il ministro di un culto, prevalendosi della sua qualità, commette un delitto diverso da quelli preveduti negli articoli precedenti, la pena stabilita per il delitto commesso è aumentata da un sesto ad un terzo, salvo che la qualità di ministro di un culto sia già considerata dalla legge.

Gli articoli 182-183-184 del Codice Penale Zanardelli mirano a fare in modo che la chiesa non diventi una specie di contro-potere all’interno dello stato. Lo stesso Ratzinger invita i cattolici all’obiezione di coscienza ritenendo implicitamente che essa sia comunque lecita anche nei confronti del riconoscimento dei diritti dei gay. Un esempio ancora più incisivo dell’obbiezione di coscienza si è avuto nell’applicazione della legge sull’aborto, in questo caso la presenza di soli medici anti-abortisti in una struttura pubblica era in grado di paralizzare di fatto l’applicazione della legge.

L’art.183 del Codice Zanardelli punirebbe l’istigazione a non riconoscere di fatto i diritti che la legge riconoscesse agli omosessuali e frenerebbe l’abuso dell’obiezione di coscienza al fine della limitazione di fatto i diritti riconosciuti dalla legge. Le leggi oggi in vigore hanno purtroppo perso da anni la caratteristica della laicità.

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GAY LAICI E LIBERTA’

È di moda parlare di gay e chiesa, di gay e politica ma nella maggior parte dei casi di gay classificabili in base a categorie di carattere ideologico. In realtà, non solo per i gay, ma per tutti, sarebbe bene tenere presente la categoria fondamentale della laicità, cioè la capacità di mantenere una autonoma capacità personale di giudizio, al di là delle appartenenze religiose o politiche, che non devono mai essere forme di vera abdicazione alla capacità di pensare in nome di fedi di vario genere che si presentano come risposte definitive capaci di dare un senso alla vita.

Intendo dire che qualunque appartenenza ha un valore se è un’appartenenza laica, revocabile, senza vincoli perpetui, senza la rinuncia a pensare. Cattolici, se ci si sente tali, ma laicamente cattolici, cioè cattolici liberi di pensare e di non essere più cattolici senza drammi se si comincia a percepire quel messaggio come estraneo o forzato. Lo stesso discorso vale per le appartenenze politiche, aderire al partito X o Y, se lo si ritiene giusto, ma mantenendo l’uso del proprio cervello, aderire cioè laicamente, al di là delle identificazioni viscerali o per reazione.

La laicità non consiste nell’essere contro qualcuno o qualcosa ma nel non dipendere, nel non essere condizionati, nel considerare la capacità di pensare liberamente come la caratteristica fondamentale del pensiero e la libertà e la pari dignità di tutti come obiettivo dell’attività politica. In questo senso esiste solo una morale ed è la morale della libertà e dell’uguaglianza, la morale del rispetto, ma anche della fermezza contro le prevaricazioni che non sono esercizio di libertà ma abuso.

Perché questi discorsi in un forum gay? La risposta è chiara: gay, certo, ma laicamente gay, gay che non devono fare massa, che non sono assimilabili gli uni agli altri solo in quanto gay, gay diversi, ciascuno con la sua storia e il suo cervello. A qualcuno potrebbe sembrare che essere gay senza una ideologia gay sia in realtà un modo di svilire l’identità gay, ma l’identità gay va vissuta laicamente, senza identificazioni a priori con una pretesa ideologia di gruppo, mantenendo cioè sempre la propria capacità di giudizio. Gay, quindi, in una forma di pluralismo culturale in cui il valore unificante, che non è né gay né etero, come non è né cattolico né non cattolico, è la laicità, cioè l’istinto della libertà e il rifiuto delle servitù intellettuali.

Molti gay fanno esperienza sulla loro pelle della dimensione asfissiante delle appartenenze non laicamente vissute, e quindi imparano, attraverso l’esperienza, quale sia il valore della libertà. Da qui deriva una specie di istinto per la libertà, una capacità di fiutare le servitù di pensiero anche quando sono presentate come un valore di fedeltà. L’unica fedeltà che ha un valore è la fedeltà alla propria coscienza. L’apparire di maestri di morale, di dottrine e di regole è la prima spia dell’assenza di libertà.

È difficile capire il senso della morale della libertà perché le morali che si sono incarnate storicamente non sono state ispirate dalla libertà o hanno proclamato principi di libertà solo a parole. La morale delle libertà non è costituita da un corpo di regole che sostituisce un altro copro di regole, si tratta invece di una realtà interna alla coscienza, basata su valori di rispetto reciproco e di apertura al diverso, finché quel diverso non divenga prevaricazione della libertà altrui.

La libertà non dà certezze ma propone dubbi, la libertà non dà risposte ma propone nuove domande, la libertà aiuta a passare dalla logica della paura alla logica delle scelte, la libertà consiste nell’essere se stessi, nel lasciare parlare la propria coscienza, la libertà è anche libertà di sbagliare e di correggere i propri errori, è libertà di cambiare idea, la libertà non viene dall’esterno ma è dentro di noi.

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I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI E L’OMOSESSUALITA’ NELL’800

Chi, prima del 1977, si fosse accostato al personaggio di Luigi Settembrini (Napoli, 17 aprile 1813 – Napoli, 4 novembre 1876) lo avrebbe ritenuto un austero padre della patria, liberale per vocazione, dottissimo, tutto patria e famiglia. A testimoniarlo stanno opere insigni. Fu grecista di valore, tradusse e pubblicò l’opera di Luciano di Samosata, pubblicò una letteratura italiana in quattro volumi. La sua opera più nota “Le ricordanze della mia vita”,  un’autobiografia, è un documento fondamentale per la storia del risorgimento napoletano; sarà pubblicata postuma dall’editore Morano, a cura dell’amico Francesco De Sanctis. Settembrini fu un uomo di grande cultura, insegnò all’Università di Bologna e fu rettore dell’Università di Napoli. Fu legato al mondo della cultura partenopea, a Basilio Puoti,  a Silvio Spaventa (Bomba, 12 maggio 1822 – Roma, 20 giugno 1893), fratello minore del filosofo Bertrando, e figlio di Maria Anna Croce, della famiglia del filosofo Benedetto Croce, che fu affidato proprio a Silvio Spaventa quando i genitori persero la vita nel terremoto di Casamicciola del 1883. La sua vita, così come descritta nelle Ricordanze, non è solo legata alla cultura ma è ricca di azione e di colpi di scena. Si sposò l’8 ottobre 1835, all’età di 22 anni, con Raffaella Luigia Fucitano, da lui chiamata affettuosamente Gigia, e da lei ebbe due figli. Fin qui il Settembrini ufficiale, senatore del Regno ed eroe del Risorgimento.

Poco a sud-est dell’isola di Ventotene si trova l’isola di Santo Stefano, in realtà uno scoglio di 27 ettari circa. Ferdinando IV di Borbone, tra il 1794 e il 1795, vi fece costruire un carcere che ospitò negli anni molti personaggi illustri, oltre Settembrini vi furono rinchiusi Gaetano Bresci, l’assassino di Umberto I, Sandro Pertini futuro Presidente della Repubblica ma anche Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Altiero Spienelli e Ernesto Rossi.

Settembrini, che tra il 1847 e il 1848 aveva preso attivamente parte ai moti antiborbonici, quando nel 1849 i Borboni tornarono al potere fu condannato a morte ma, come spesso accadeva sotto i Borboni, la condanna non fu eseguita e fu successivamente commutata in ergastolo. Il carcere di Santo Stefano ospito Luigi Settembrini dal 1851 al 1859. Dopo la restaurazione dei Borboni, anche Silvio Spaventa fu arrestato (19 marzo 1849), giudicato colpevole di cospirazione per aver sostenuto la resistenza del Generale Guglielmo Pepe, fu anch’egli condannato a morte (8 ottobre 1852) e anche per lui intervenne la commutazione della pena e fu mandato a scontare l’ergastolo nel carcere di Santo Stefano, dove rimase fino all’inizio del 1859, quando sia per lui che per Settembrini intervenne una nuova commutazione della pena in esilio perpetuo in America. Il piroscafo che avrebbe dovuto portare 68 condannati per motivi politici in America, tra cui Settembrini e Spaventa, partì per la sua destinazione, ma il figlio di Settembrini, che si era fatto assumere nell’equipaggio ma era in realtà un ufficiale della marina inglese, organizzò un ammutinamento e dirottò la nave fino a Queenstown in Inghilterra.

Tra la fine del 1852 e l’inizio del 1959 Luigi Settembrini e Silvio Spaventa condivisero la stessa cella. All’inizio della prigionia all’isola di Santo Stefano Settembrini non aveva ancora 40 anni e Spaventa ne aveva 30. Il Figlio di Settembrini, che dirottò la nave, era nato l’8 aprile del 1837 e all’epoca del dirottamento non aveva compiuto ancora 22 anni.

Nel periodo di Santo Stefano Settembrini tradusse i dialoghi di Luciano ma non si limitò a questo, perché compose anche un altro scritto che si presentava come la traduzione di un’opera greca.

Raffaele Cantarella (1898 – 1977) notissimo grecista e bizantinista italiano, che nel 1937 dirigeva l’officina dei papiri ercolanesi della Biblioteca Nazionale di Napoli, mentre riordinava alcuni fondi della biblioteca rinvenne un manoscritto: che portava sul primo foglio la dicitura: “I Neoplatonici per Aristeo di Megara – traduzione dal greco”. Cantarella, che era un grecista rifinito rimase stupito, non aveva mai sentito nominare nessun Aristeo di Megara e la traduzione (in Italiano) che gli era capitata tra le mani sembrava cosa decisamente recente. Cantarella si rese immediatamente conto che si trattava di un falso che si intendeva spacciare come traduzione di un originale greco. Accanto a quella improbabile “traduzione” Cantarella rinvenne un altro e ben più voluminoso manoscritto. La carta era identica, la grafia era identica e il grosso manoscritto conteneva le Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini.

Cantarella sapeva bene che il manoscritto delle Ricordanze era stato certamente esaminato attentamente sia da Francesco Torraca, che ne aveva curato l’edizione che da Benedetto Croce, informandosi viene a sapere che diversi studiosi napoletani erano venuti in qualche modo a conoscenza  de “I Neoplatonici” ma sia Torraca che Croce si erano ben guardati dal pubblicare quel testo riferendolo a Settembrini per non infangarne la figura, dato che il testo, almeno nella prima parte contiene una vera apologia della omosessualità  vista in modo un po’ mitizzato in un’atmosfera greca classica.

In effetti la biografia ufficiale di Settembrini, sposato e con figli, non corrisponde all’immagine estremamente libera da preconcetti e moderna che compare nel testo. Settembrini si riferisce alla sua pretesa traduzione come ad una fabula milesia, cioè un breve romanzo erotico classico (come il romanzo di Dafni e Cloe o come il Satyricon) ma l’ispirazione di Settembrini è terribilmente moderna.

Va sottolineato che Settembrini mandò una copia di questo scritto alla moglie, sostenendo con lei che si trattava solo di una traduzione da un originale greco “…Mi dirai tu: ‘E come ti viene in capo di tradurre scritture dove è qualche oscenità?’ Ecco qui, Gigia mia: le opere greche sono piene di queste oscenità, quale più, quale meno: ma era il tempo, era la gente voluttuosa: e le più belle opere ne sono piene”. “Scrivendo io da me, mi guarderei bene da queste sozzure”, aggiunge ancora Settembrini. È stato ipotizzato (Vincenzo Palladino) che i protagonisti del racconto erotico siano in realtà Settembrini e Speventa nei loro anni di convivenza nella stessa cella del carcere di santo Stefano. La critica ha liquidato sommariamente il testo che è stato pubblicato solo nel 1977, quel testo ha invece ha un significato enorme si si vuole capire quale fosse la situazione di un omosessuale (o forse di un bisessuale) dell’800 che non poteva essere sincero nemmeno con sua moglie.

I NEOPLATONICI PER ARISTEO DI MEGARA

DI LUIGI SETTEMBRINI

Avvertimento del traduttore

I Neoplatonici di Aristeo di Megara è una di quelle favole milesie, di cui i delicatissimi Elleni tanto si dilettavano. È un racconto osceno sino a la metà, ma è una opera d’arte; e perché bella opera d’arte è tradotta in italiano. Noi uomini moderni abbiamo tutti i vizi degli antichi Elleni, e forse anche più e maggiori, ma li nascondiamo non so se per pudore o per ipocrisia: quelli non nascondevano nulla, ed abbellivano con l’arte anche i vizi. Uno dei caratteri principali dell’Arte greca è questo che ella non è ipocrita, non nasconde nulla, rappresenta l’uomo nudo qual’è, anche con le sue vergogne. I moralisti potranno biasimare questo racconto, gli artisti se ne compiaceranno certamente, e diranno che l’arte fa bella ogni cosa.

E da questo racconto ancora si vede come sia antica l’opinione di alcuni discreti uomini, i quali credono che l’amor platonico non sia amore purissimo e scevro di ogni sensualità, come alcuni furbi han dato ad intendere per nascondere i loro amori maschili.

E di questo volevo avvertire coloro che leggeranno.

 Capo 1

Nella città di Atene, nel borgo di Colitto, era un ricco cittadino chiamato Eufranio, il quale da una donna di Andro sua moglie a nome Tecmessa, che era molto bella, ebbe un figliuolo cui pose nome Callicle, bambino assai leggiadro e simigliante a sua madre. Un suo vicino ed amico detto Femio ebbe anch’egli da una donna di Megara detta Doride un bambino che chiamò Doro, bello e di occhi soavi. I due bambini venivano su allevati insieme, e si amavano tra loro mirabilmente: se uno d’essi piangeva, la mamma non sapeva altrimenti acchetarlo che chiamando l’altro, e come questi veniva, quegli cessava le lagrime, e sorridendo gli andava incontro, e si trastullavano insieme molte ore del giorno. Se Callicle aveva dei frutti o delle ciambelle col mele voleva mangiarle con Doro, e se Doro aveva un vestitino nuovo pregava Tecmessa di fare a Callicle una tunica simigliante. Ogni mattina i due fanciulli lavati, puliti lucenti andavano insieme a scuola accompagnati dai loro servi, e presto impararono a leggere e scrivere, e mostravano molta intelligenza: e dopo la scuola entravano nella palestra giovanile, dove nudi si esercitavano a la corsa, a la lotta, al disco: cosicché erano belli, ingegnosi, robusti. Erano sempre insieme, e non mai l’uno si dipartiva dall’altro, e per le vie si tenevano per mano: e la gente che s’incontrava a vederli, se ne compiaceva assai, e li chiamava i Dioscuri, e li credeva fratelli, e diceva: Beata la madre che li ha partoriti.

Ora avvenne che Tecmessa ammalò, e brevemente morì, ed Eufranio che l’amava assai ne ebbe tanto dolore che indi a poco tempo moriva anch’egli, lasciando l’unico suo figliuolo raccomandato a Femio, acciocché lo allevasse come suo e insieme al suo Doro. Il povero Callicle pianse amaramente la perdita della mamma sua e del padre, e passò ad abitare nella casa di Femio, dove il suo Doro gli era sempre attorno per consolarlo, e spesso piangeva con lui. Femio e Doride allevarono Callicle amorosamente, e lo tenevano come loro figliuolo, e con gran fede gli serbarono ed accrebbero la roba. I due fanciulli avevano la stessa età, ed erano intorno ai dodici anni: andavano a la scuola e alla palestra: e appresero i poemi di Omero e di Esiodo e di Teognide, e lessero le Muse di Erodoto: Callicle poi era il più veloce al corso tra i suoi coetanei, e Doro il più robusto lottatore. E così vissero insieme altri anni, acquistando utili cognizioni, ed afforzando la persona bella e svelta. Nella stessa casa abitavano, a la stessa mensa cenavano, nella stessa camera dormivano e nello stesso letto: e spesso l’uno con l’altro confondendoi piedi e le gambe, come i serpenti intorno a la verga di Mercurio, si facevano carezze, si abbracciavano, e soavemente si addormivano. Messero insieme le prime calugini, e l’uno si compiaceva dell’altro: insieme andavano per la città, insieme per i campi, insieme io li vidi in Megara in un podere che apparteneva a Doride. Nelle feste degli Dei essi apparivano i più vistosi nel coro dei giovinetti, e a loro due si volgevano gli occhi di tutte le fanciulle che formavano l’altro coro: e tutti dicevano che i figliuoli di Femio erano i più belli garzoni della città. Un giorno dopo una processione Callicle disse: Hai veduto, o Doro, con che occhi d’amore guardavano te e me quelle vergini che andavano innanzi a le altre, e più vicine alla statua della Dea? – Sì, sono belle quelle vergini, rispose Doro, ed hanno begli occhi e belle chiome d’oro. E Callicle: Ma sono più belli gli occhi tuoi: e glieli baciò. E Doro baciando lui: E questi tuoi capelli che ti scendono come appio, sono più belli delle loro trecce! quanto sei bello, o Callicle, amico mio! – Quanto sei bello tu, o Doro, o Doro mio. – E così dicendo si abbracciarono, si strinsero, e congiungendo le loro bocche si diedero un lungo bacio, e sospirarono.

Erano già efebi, e già sentivano quell’interno rimescolamento, quell’angoscia che è il primo segno, la prima voce di amore. E Doro disse: Io sento, o Callicle, che t’amo con un nuovo ardore, e maggiore di quello che ho sentito sinora. E credo sia quell’amore che secondo il divino Platone, gli Dei mettono nel petto soltanto dei savi, quell’amore che nutrisce la sapienza e la purifica, che unisce e rende prodi i giovani guerrieri. Sì, o Doro, disse Callicle: io non amo che te, e più forte di prima, e credo che sia nato in noi questo amore platonico. Godiamone ora che ne è tempo.

Quando i due giovinetti giacevano insieme abbracciati parevano due medinni di fior di farina. Erano i loro corpi bianchissimi e sparsi di color di rosa, e lucenti, e mandavano fresco odore di giovinezza, ed erano sempre tersi per lavacro. Si guardavano l’un l’altro, si carezzavano, si palpavano in tutte le parti della persona, si baciavano negli occhi, e nella faccia, e nel petto, e nel ventre, e nelle cosce, e nei piedi che parevano d’argento: poi si stringevano forte e si avviticchiavano, e uno metteva la lingua nella bocca dell’altro, e così suggevano il nettare degli Dei, e stavano lungo tempo a suggere quel nettare: ed ogni tanto smettevano un po’ e sorridevano, e si chiamavano a nome, e poi nuovamente a stringere il petto al petto e suggere quella dolcezza. E non contenti di stringersi così petto a petto, l’uno abbracciava l’altro a le spalle, e tentava di entrare fra le belle mele, ma l’altro aveva dolore, e quei si ritraeva per non dare dolore al suo diletto. Più volte ora l’uno, ora l’altro tentarono questo giuoco, ma nessuno dei due riuscì; in fine Doro si levò e disse: Un Dio mi suggerisce un espediente. E preso un vasello di purissimo olio biondo come ambra, soggiunse: Ungiamo con quest’olio la chiave e la toppa, e tentiamo, ché forse riusciremo ad aprire. Unsero bene e la chiave e la toppa, e così Doro senza molta fatica sua e senza molta noia di Callicle entrò vittorioso: a lo stesso modo entrò Callicle ed ebbe una simile vittoria; e così furono contenti tutti e due e goderono il primo frutto del loro amore. Nello stesso giorno salirono su la rocca, entrarono nel tempio della vergine Pallade a cui è sacro l’ulivo, e ringraziarono la Dea dell’espediente che loro aveva suggerito, a usare dell’olio di cui usano gli studiosi e gli amanti. Da quel giorno l’amore dei due giovani non ebbe più smanie né angosce, e divenne tranquillo. Attendevano agli studi, alle faccende della casa e della villa, conversavano sennatamente con le persone; e dopo le occupazioni della giornata entravano nella fedele cameretta e si pigliavano a sorso a sorso tutte le dolcezze: si miravano lungamente l’uno il corpo dell’altro, e con le mani si palpavano e carezzavano, e si davano dolcissimi baci nella bocca, e in fine col divino vasello si ungevano ed entravano nell’ultimo godimento. Dopo il quale venuta la stanchezza e il sonno si addormentavano, e spesso il mattino risvegliandosi si trovavano ancora abbracciati.

E così vivevano pigliandosi diletto con temperanza, e tanto ne pigliava l’uno quanto l’altro, una volta per uno in ogni cosa e sempre, come vuole giustizia ed amore. E di questo i due giovinetti fecero giuramento e lo serbarono per tutta la vita. E io credo che se gli Dei immortali riguardano a le cose che fanno gli uomini, hanno dovuto compiacersi a mirare questa bellissima, e forse sentire invidia di due fiorenti giovanetti che tanto si amano tra loro, e godono secondo giustizia ed amore.

Capo 2

Frequentavano la scuola di Codro, filosofo platonico di gran fama in Atene. La scuola era su la gran via che mena al Pireo, poco lunge dal tempietto di Apollo: ed ivi convenivano molti giovani ateniesi e forestieri per ascoltar Codro, che era bel parlatore, e di piacevole aspetto senza l’accigliatura filosofica, un uomo su i quarant’anni, composto nelle vesti, e spesso sorridente. Dicevano che egli solo aveva inteso Platone, e ne spiegava la dottrina. I giovanetti lo ascoltavano con grande attenzione, e notavano su loro tavolette le belle cose che udivano per tenerle meglio a mente, e usciti dalla scuola andavano spesso nel boschetto sacro ad Apollo, e quivi passeggiando tranquilli e solitari ragionavano delle cose udite dal maestro. Un giorno videro venire pel boschetto esso Codro solo e lento: gli andarono incontro, e lo salutarono, ed egli rispose con un sorriso al loro saluto, e disse: Che fate qui, o bei garzoni? – Ragioniamo. – E di che? – Di quello stesso che tu oggi dicevi nella scuola. – E posso io entrare tra voi? Ebbene, sediamo su quel sedile di marmo dove l’ombra degli allori è più fitta e difende dai raggi del sole. – E seduto che fu in mezzo ai due giovani, prese e strinse una mano all’uno ed all’altro, e disse: Un poeta direbbe che voi o giovanetti, somigliate i cavalli del sole, così belli, e lucenti, e sempre insieme: ma io che da alcun tempo vi vado osservando, io dico che voi siete innamorati. Oh non arrossite di questo che non è vergogna, ma prezioso dono che gli Dei concedono a pochi ed ai migliori. E Callicle rispose: Sì, noi ci amiamo, né abbiamo di che arrossire o vergognarci perché non rechiamo offesa ad alcuno, né a noi stessi. E Codro: Voi, o giovanetti, fate quello che fecero Armodio ed Aristogitone, – che diedero la libertà ad Atene, ed erano innamorati ed a quei grandi innamorati gli Ateniesi rizzarono statue ed offrono sacrifici come fanno agli Dei. Innamorati erano Achille e Patroclo i due grandi prodi che caddero a Troia; e quando Patroclo fu morto, Achille pianse amaramente, e ricordando tutte le dolcezze godute insieme ricordava con maggior passione:

……..quella dolce usanza

Di star fra le tue cosce santamente.

        E negli eserciti elleni quale è la schiera dei più bravi? Quella degli innamorati, che combattono a coppia, e l’uno aiuta l’altro. L’amore li rende eroi, ed essi fanno le maggiori prodezze di cui ricordano le nostre storie. Insomma sappiate, o giovanetti, che tutti gli Elleni migliori per senno, per coltura di mente e per gentilezza di costumi, sono innamorati nella loro giovinezza, come voi siete, e taluni anche nell’età matura e nella vecchiezza. Qui Doro domandò: Ed anche tu, o Codro, sei innamorato? – E Codro rispose: Sì, o giovanetto; ed io garzone fui amato da Cleobulo mio maestro, di cui mi è cara la memoria; ed ora amo un giovane dell’età vostra il quale da alcuni giorni è ito a Larissa sua patria per raccogliere l’eredità paterna. – E Doro: E questo tessalo ama te? – Sì, perché io l’amo: ed egli desidera di tornare presto e di vivere meco, come io desidero di rivederlo, e senza di lui sono mesto, come mi vedete. Ragioniamo dunque di questo amore. Il nostro divino maestro Platone di questo amore intende parlare nelle sue opere, e non di altro, come si crede. Ricordate le ultime parole del Fedone che sono queste: Concedetemi, o Dei, che io possa piacere sempre ai belli. Questo è quell’amore puro e sacro di cui egli ha ragionato tanto e sì profondamente. Ora questo amore è perfetto quando è in due giovani come voi siete, leggiadri di persona, pronti d’intelletto, e nutriti di buone Lettere: perché amandosi fra loro godono del piacere temperatamente (ché carattere di questo amore è appunto la temperanza) e non isciupano e disfanno il corpo con le femmine il cui desiderio è insaziabile; non mandano a rovina la casa donando con pazza larghezza a cortigiane, che più hanno più chiedono; non sono tormentati da gelosia; non si mischiano in rapimenti e risse e ferite e uccisioni; ma invece come hanno goduto insieme un diletto, attendono insieme agli studi, vanno insieme a la guerra dove l’uno è scudo dell’altro. Questo amore ha per legge la reciprocanza, e però è ottimo nei giovani della stessa età, buono in quelli di età poco diversa. Callicle dimandò: Dunque reciprocanza anche per te e Cleobulo tuo maestro, fra te ed il Larisseo? – Sappi, o Callicle, rispose Codro, che amore senza reciprocanza non è elleno ma barbaro, non è amore ma furore che soverchia e oltraggia un altro, il quale non può fare a te quello che tu hai fatto a lui. Eppure, disse Doro, molti biasimano questo amore, e molti più biasimano la legge della reciprocanza. – E Codro: Chi sono costoro? quelli che non conoscono questo amore, e biasimano ciò che non conoscono. Coloro che hanno sentito questo diletto amoroso, ne ringraziano gli Dei. Io dirò a quelli: Ma provate, vedete, conoscete prima, e poi ne riparleremo. E a chi nega la legge io rispondo, che egli nega che due sia maggiore di uno, che due diletti piacciono più di uno. Amare è cosa santa, godere dell’amore senza offesa altrui e senza vergogna propria, godere egualmente, è accrescimento e compimento d’amore. Non ascoltate, o giovanetti, coloro che ragionano di cose di cui non hanno conoscenza, e qui la conoscenza non viene dalla mente ma dalla esperienza e dal fatto. Chi non ha provato non può parlarne. Ma avete a sapere, o cari giovanetti, che questo amore, come ogni altra cosa ha bisogno di un’arte per giungere alla sua perfezione, e quest’arte si apprende. – E quale sarebbe cotesta arte? disse Callicle. Tu che sai tante cose, e sei così dentro nella dottrina del grande filosofo, conosci tu anche quest’arte? – La conosco, rispose Codro, e potrei insegnarvela, se v’aggrada. – Disse Doro: Volentieri ti avremo a maestro anche in quest’arte. Di’ dunque, e noi ti ascolteremo. – Ogni arte, o bei giovanetti, s’impara più col fare che col dire. E se voi vorrete venir meco in mia casa, io vi mostrerò l’arte, e ve la spiegherò secondo mio potere. – I giovani si guardarono in viso, e dopo alcune occhiate che si scambiarono tra loro, disse Callicle: E noi verremo con te per vederti adoperare cotesta arte.

         Si avviarono dunque a la casa di Codro, e quivi giunti egli fece apparecchiare da un servo sopra un desco alcune focacce di sesamo, della carne di bue con salsa, un piattello di frutta colte allora nell’orto, e un fiasco di vino di Chio. Mandò il servo fuori per una faccenda, e voltosi ai giovani disse: Voi siete miei ospiti, accettate questo dono ospitale. E poi che tutti e tre ebbero mangiato e bevuto di quel buon vino, e che si furono rinfrancati, Codro li menò in una stanzetta dove era disteso per terra un profondo e molle tappeto tarentino, e qua e là dei cuscini su i quali sederono, avendosi prima levati i sandali. Allora Codro disse: Bisogna scoprire il corpo, perché la bellezza è in tutte le membra, e il primo godimento l’hanno gli occhi. Tutti e tre rimasero nudi: i due giovani asciutti e lucenti, e Codro mostrò carni bianche e pulite che erano una cosa ghiotta a vedere, e aveva le mani bellissime. I due giovani gli palpavano piacevolmente le grosse mele ed il petto, ed egli stringeva e baciava ora l’uno ora l’altro. Ecco qui l’arte, disse: ma non si può operare che con uno. Sii tu primo, o Doro. Bisogna dunque baciare prima gli occhi, e gli occhi tuoi, o bel Doro, sono soavissimi. Poi baciare la bocca con un bacio lungo lungo lungo, e la lingua mia guizzare nella bocca tua, e la tua nella mia. – Sapevamo questo, disse Callicle; che ce l’ha insegnato amore. – E Codro seguitava: Ti bacerò le mammelle così, e le suggerò un poco. Scorrerò leggermente con la mano sul ventre, e su questi bei peli del pube, e piglierò questo bel fiore che è rizzato sul suo gambo con tanta baldanza. O bel fiore! ha il colore e l’odore della rosa, e pare che schiuda la bocca e mi voglia parlare! E poi con la mano scorrerò oltre, e con un dito dolcemente tenterò la porta. – E questa neppure è nuova arte per noi, disse Callicle. – E Codro: Oh lascia che io ti baci nelle spalle, e nei fianchi, e per le mele. O belle mele Esperidi, viene Ercole a cogliere il frutto prezioso. E così dicendo il buon Codro, che si aveva unto di odoroso unguento il suo Ercole, abbraccia Doro, e dopo due o tre dolci sforzi entra nel divino orto delle Esperidi. Stavano così congiunti e stretti sul tappeto, e Callicle a quella vista non può trattenersi, ed avendo anch’egli unto il chiodo, lo punta fra le carnose mele di Codro, e giù dentro a un tratto. Scuotesi Codro, e lascia Doro; ma subito lo riprende, e dice: Bravi, o giovanetti, state saldi, tu Doro innanzi a me, tu Callicle dietro: teniamoci stretti bene, e non usciamo di carreggiata. E poi che ebbero corso tutti e tre insieme uno stadio, disse Codro: Io volevo insegnare l’arte a voi, e voi, o divini giovanetti, insegnate a me una cosa novissima, come i due diletti d’amore si possano avere nello stesso tempo. Ringrazio gli Dei di avere appreso un’arte più fina. – Basta, disse Doro: reciprocanza ora. E così rivolgendosi tutti e tre, Codro si strinse il bravissimo Callicle, e Doro con eguale impeto e bravura entrò nel giardino di Codro che mise un gran sospiro.

      E poi che ebbero compiuto questo altro stadio, e si astersero le membra con un lavacro, Codro volle che così nudi come erano libassero del vino a la memoria di Platone, e poi lo bevessero nella medesima tazza. E poi che ebbero libato, e bevuto, e si furono baciati, Codro abbracciandoli tutti e due disse: Due diletti nello stesso tempo! eppure fra i due mi è stato più dolce quello che voi avete dato a me. – E noi, o maestro, anche noi abbiamo avuto un nuovo diletto a penetrare in questo profondo seno della tua platonica sapienza. – Gli Dei vi benedicano, o giovanetti. Non vi dimenticate che questa nuova conoscenza di diletto l’avete appresa con un filosofo platonico. I giovani si rivestirono e andarono via. Qualche altra volta platoneggiarono a quel modo col loro maestro, finché non fu ritornato il giovane da Larissa.

Capo 3

Era la festa delle Panatenee, e grandissima moltitudine di cittadini e di forestieri empivano le vie di Atene. In mezzo la folla Callicle e Doro si tenevano per mano per non separarsi, ma venne un’onda di gente, ci fu un’agitazione, una stretta, ed i due amici furono divisi, e non si videro più per alquante ore. Finalmente presso al tempio dei Dioscuri Doro scorse di lontano Callicle, e lo chiamò; e poi che si furono avvicinati, disse: Che è, o Callicle? ti vedo più lieto del solito. – Sì, Doro mio, sono lieto perché gli Dei mi hanno mandato una buona fortuna, ed ho acquistata una nuova idea. Vieni qui, sediamo a piedi di questa colonna lungi dalla folla, e ascolta. – Oh che può essere, o fratel mio? E Callicle cominciò in questa guisa:

Come la folla mi ha staccato da te e non ti ho più veduto, io ti ho cercato per ogni parte ed ho dimandato di te a quanti mi avvenivo nostri conoscenti. In una brigata di donnette vidi Innide la bella danzatrice, la ricordi?, quella che come ci vedeva ci faceva un risolino, e ci gettava un motto, e ci chiamava i Dioscuri filosofi? – Quella donnina coi capelli neri, e gli occhi vivi? Sì, la conosco. – Io le dimando: Hai tu veduto Doro? – Sì, mi risponde. – E dov’è? – Qui, dice, e aprendosi la veste sul petto mi mostra le papille; e poi sottovoce: Se mi segui, lo troveremo. Facilmente si libera delle compagne, ed entra in una vietta: io dietro lei, e dopo breve cammino siamo in casa sua. Io le dico: O Innide, lasciami veder bene dove tieni chiuso l’amico mio. Ed ella: Té, o filosofino. Ed io vidi, e toccai e baciai due poppoline bianchissime e durette. – Non è qui, diss’ella: ma lo troveremo in altro luogo. Ed io: o Innide, io non conosco cotesto luogo né vi sono stato mai, né io né l’amico mio, e tu mi dovrai guidare. Ed ella giubilando, sì, davvero? disse, e prese a carezzarmi la faccia, e baciarmi. Dunque coglierò io questo fiore! E presomi con le due mani il fiore lo riguardava, e lo baciava tutto, e lo fiutava, e diceva: Pare un bocciuol di rosa che sta per aprirsi. Poi gattasi supina sul letto, e mi tira sopra di sé, e con una mano mette il mio bocciuolo nel suo vasello, e mi stringe le braccia al collo, e mi incrocia le gambe sopra la schiena, e mugola, e stravolge gli occhi, e si dimena, e mi morde un labbro, e dopo alquanto dimenare ci fermiamo insieme. Non uscire, ella mi dice, e con le gambe mi stringe la schiena: ed indi a poco abbiamo fornito il secondo lavorio con la stessa dolcezza. Poi ella con le sue mani mi ha asciugato e ripulito il fiore, e lo teneva, e lo palpava; ed io le suggevo ora una poppa ora un’altra, e mi deliziavo a scorrere con la mano su le cosce e le mele. Oh che mele sono quelle, bianche e lucenti come marmo pario, e grosse e sempre freschissime! Ad un tratto mi viene un pensiero, e dissi: O Innide, tu hai vagheggiato il fiore, deh lascia a me vagheggiare la cestellina nella quale l’abbiamo messo, ché io non ho veduto mai una cestina, e questa è la prima. Ella si leva, si rinfresca con acqua, si pulisce con odorato pannolino, torna a me, e mi dice: quando era nuova bisognava vederla la cestina! pure ora non è guasta, ed è piccoletta e odorosa. Io l’ho veduta, o Doro, ed ho alitato la sacra porta della vita e del piacere, la porta onde esce l’uomo a la luce del sole: pare una grotta sacra ad un Dio misterioso, la grotta di Pane ricoperta di molto frondame lucente e morbidissimo. L’ho veduta, l’ho salutata, l’ho baciata ancora, ed abbiamo celebrato il terzo mistero, ed abbiamo goduta la terza dolcezza che è stata più lunga ma meno intensa. Infine ho dato un altro bacio a Innide, e sono venuto a cercare di te, e a contarti questa mia avventura.

Il povero Doro durante questo racconto si era tutto acceso nel volto e sentiva come bollire il sangue; e poi che Callicle ebbe finito, egli disse: Tu ora conosci cosa che io non conosco: E Callicle: Vuoi averla anche tu questa nuova conoscenza? – Deh Callicle mio, rispose Doro, le tue parole me ne hanno fatto venire un desiderio ardentissimo. – Vinei meco, disse Callicle; e s’avviarono, e dopo alquanto cammino picchiarono a la casa d’Innide. La quale come vide i due giovanetti, Io vi aspettavo tutti e due, disse, e fece gran festa, e ringraziò Callicle con un bacio. E questi le disse: Vedi altro bel dono che ti reco! Tu coglierai quest’altro fiore. E mentre voi godrete, goderò anch’io a mirarvi abbracciati e stretti insieme. – No, no, disse la donna – Ebbene, rispose Callicle, vuoi che io esca, o mi intrattenga con la tua servetta – No, no: guarda pure, se così vuoi. Intanto Doro le azzeccò un lungo e savoroso bacio, e dopo alcune carezze ella disse: O Santa Venere degli Orti, io ti ringrazio della buona ventura che mi dai, a farmi cogliere in un giorno questo bocciuol di rosa e questo garofano, che sono i più bei fiori del giardino virile d’Atene. Si mescolarono insieme, e Callicle si piaceva a guardare i piedi nudi d’Innide che premevano su la vigorosa schiena di Doro, il quale lavorava di gran forza; e come egli accarezzava quei piedini che parevano di cristallo, ella guizzava, ed egli sorridendo diceva, godete. Era un vero filosofo questo Callicle, che tutto voleva vedere ed osservare, e toccare. E poi che quel lavorio fu finito, la donna si messe in mezzo ai due garzoni, e dando loro molti baci, e poggiando il capo ora sul petto dell’uno, ora sul petto dell’altro, disse: O bei Dioscuri, voi non siete uomini ma Dei immortali, così belli siete, e così grande è l’effetto della vostra bellezza sopra di me. Non dimenticate la povera Innide, con la quale, o bei Dioscuri, avete celebrato la prima volta la festa delle Panatenee. – E dopo altre carezze i giovani andarono via.

Tornati a casa i due giovani, poi che ebbero cenato lietamente con la famiglia, entrarono nella loro camera, furono nel comune letto, e mescolarono insieme le gambe come solevano fare. E stando così Callicle disse: Che ti pare, o mio Doro, del diletto che oggi abbiamo avuto con Innide? – A me pare, rispose, Doro, un diletto grande, e diverso da quello che abbiamo tra noi: è un’altra cosa. – E Callicle: Ma quale ti pare maggiore? Disse Doro: Io non posso paragonarli, perché il nostro è congiunto ad amore, e quello è stato senza amore. – Ma paragoniamo diletto a diletto, disse Callicle. – E Doro: Se vuoi che io ti dica quello che a me pare, io tel dirò. Con Innide ho sentito una ebbrezza nuova, e assai più forte della dolcezza solita. – Tu dici quello che ho sentito anch’io, replicò Callicle: e non so per quale ragione il filosofo non loda quel diletto inebbriante, anzi lo sconsiglia ai savi; – Io credo, disse Doro, appunto perché è inebbriante e turba la ragione, e dopo quella ebbrezza vengono molti fastidi, che noi non conosciamo perché l’abbiamo goduta una volta, vengono gelosie, dispendi, figliuoli, cure domestiche, i quali fastidi non vengono dopo l’altro diletto che è sempre sereno ed eguale, e senza sperpero di roba, e però più conveniente al savio. – Ma credi tu che se non ci fossero questi fastidi il filosofo biasimerebbe il diletto che si ha con la donna? Io no, disse Doro: ma sia qualunque l’opinione del filosofo, io penso che noi non dobbiamo lasciare due per avere uno, e che noi dobbiamo godere dell’uno e dell’altro come noi possiamo. Questo mi pare consiglio più savio, non rifiutare nessuno dei beni e dei piaceri che gli Dei ci presentano, e goderceli tutti, ma temperatamente per goderli più a lungo. E Callicle: E se dovessi tu scegliere? Nel diletto nostro ci sono due parti, e come due diletti, e in quello inebbriante c’è una parte sola. Dopo che io mi sono stretto ad Innide ed ho goduto con lei, ella ad un modo io ad un altro, non abbiamo scambiate le parti come facciamo noi: ché quando io ho abbracciato il mio Doro, io sento una seconda dolcezza, sento che il mio carissimo Doro abbraccia me. Innide non fa a me quello che io feci a lei, e Doro fa a me quel che io a lui. All’udir queste parole Doro senz’altro abbraccia a le spalle il suo Callicle e se lo stringe soavissimamente, e poi Callicle a lo stesso modo abbraccia e stringe il bel Doro. Che volete? avevano diciotto anni! E così si addormentarono.

Capo 4

       Dopo due giorni all’ora convenuta in sul tardi Callicle e Doro furono in casa d’Innide, la quale li accolse con festa e baciò in bocca all’uno ed all’altro. Era Innide una donnetta vezzosa, su i venti anni: aveva occhi parlanti, bocca rosata e sorridente, manine delicate, piedi piccoletti, e tale un candore nelle carni che pareva nata dagli Erettei (nobili antichi ateniesi). Ella era uscita allora dal bagno, ed era fresca e lucente, e ricoperta d’una finissima veste listata di porpora. Con un bell’atto fanciullesco ella sedè su le ginocchia di Doro, e con le mani gli ravvivava i capelli su la fronte, e lo mirava con un sorriso di compiacenza; e gli gettava le braccia al collo, e gli baciava gli occhi: Callicle si sedé vicino, ed ella pose un piedino nudo e poi l’altro su le ginocchia di Callicle, il quale li prese tutti e due, e li baciò, che parevano due pezzi di cristallo. Poi Innide gli prese il mento con una mano, e gli baciò la bocca: ella non sapeva dividersi fra i due, ma si teneva più stretta a Doro. Intanto Doro le metteva in dito un anello d’oro lavorato in Rodi, e Callicle le metteva al braccio un’armilla anche d’oro figurata di due serpenti fatti con molta arte. Ed ella guardando il dono che le facevano i giovanetti, disse: Ma quale anello, quale armilla, quali collane, quali cioccaglie sono belli e preziosi come Callicle e Doro, i più belli e leggiadri giovani di Atene, che sono miei, che li ho avuti io la prima volta, ho colto io il bel fiore della loro verginità? Nessuna donna, e neppure la figlia dell’Arconte l’avrà questa fortuna in vita sua. Voi mi avete dato voi, e voi siete per me più preziosi che tutto il tesoro di Delfo. Io d’anelli ne ho quattro, sapete? Ed un’armilla e due paia di cioccaglie, uno a tre mandorle, ed uno a cerchietto da cui pende una mezza luna, e due cicale d’oro, e due api per tenere i capelli, e sono lavori di Siria. Oh ve li voglio far vedere! Andò nella camera vicina, prese uno scrignetto, e postolo innanzi ai giovani ne cantava quei suoi gioielli, ed ora di uno ora di un altro si adornava, e diceva: che vi pare? mi stanno bene? A la prima festa metterò l’anello e l’armilla vostra, e la bella comparita che voglio fare! Callicle domandò: Chi ti ha dati questi gioielli? la mamma? Innide si rabbuiò nel volto, e rispose: Oh, la mamma mia era una povera donna moglie d’un marinaio, il quale le morì quand’io avevo cinque anni, ed ella con le sue fatiche mi dava a campare, e mi tirava su, ed io fatta grandicella divenni danzatrice, ed ebbi qualche amante: ma perdei la mamma mia diletta, e piansi tanto, e quando me ne ricordo non posso tenere le lagrime. – Povera Innide, disse Doro. E Callicle: Dunque gli amanti ti han fatto ricca? – Ricca me! vivo senza angosce, ed ho una servetta. Ma a voi voglio dire ogni cosa. Padron Cleonimo, quel vecchio ricco che ha tante navi nel Pireo, e che voleva gran bene a mio padre che navigava con lui, egli me le ha portate queste cosette, e mi dà ancora come sostenere la vita. Chi? quel vecchio tutto bianco? disse Doro. Ed Innide: Sì, quello che come l’aglio ha il capo bianco e la coda verde. Ha moglie, ha figliuoli, e vuol bene anche a me! – E tu ne vuoi a lui? disse Callicle. E Innide: Oh altro! come ne vorrei alla santa anima di mio padre! Mi fa tanto bene! sarei una scellerata a non volergliene. – E Callicle: Vuoi bene a lui ed a noi – Ed ella: A voi è un altro bene che vi voglio, e da un pezzo, e voi non ve ne siete accorti. A lui come padre, a voi come amanti: in lui amo la bontà, in voi la bellezza. Ma che egli non si accorga di nulla, per gli Dei immortali, se no io sono disfatta. – È geloso egli? disse Callicle – Ed Innide: Naturalmente è geloso: egli è vecchio. Ma voi non siete gelosi voi l’uno dell’altro? E se io voglio più bene a Doro, non ne senti gelosia tu, o Callicle? – Io no, disse Callicle; né egli sentirebbe gelosia di me, perché siamo amici ed abbiamo tutto in comune. – Oh voi siete filosofi, e diversi dagli altri uomini, disse Innide. Intendo: voi non mi amate, perché amore è geloso: voi credete che la povera Innide sia una danzatrice come le altre, ed io sono una donna innamorata della bellezza vostra da molto tempo, la vostra bellezza mi ha fatto perdere il senno. E così dicendo la vezzosissima donna si lasciò cadere nelle braccia di Doro, e pianse. Doro la sollevò di peso, e la portò sul letto, e disse: Ora è tempo di godere, godiamo. I due giovani giacquero a canto a lei, e dandole baci e facendole carezze, ora l’uno ora l’altro fecero quello che vollero essi, e quello che Innide voleva, e quello che vorreste voi, e che vorrei anch’io: e non ne dico altro. E così per alcun tempo cautamente per non dare sospetti al vecchio Padron Cleonimo, ora Callicle, ora Doro, ora tutti e due insieme filosofarono con Innide, la quale non poteva mai saziarsi di mirare i due bellissimi garzoni e di ragionar d’amore con essi.

Capo 5

Passarono alcuni mesi, e Doro fu preso da una febbre violenta, e giacque in letto per oltre venti giorni assistito con ogni cura amorosa dalla madre sua, e dal suo amico: e poi che si levò, e stette meglio, e poté uscire di casa la prima volta, andò solo da Innide, la quale gli fece tenerissime carezze. Come stai, o bel Doro? mi pare un anno che non ti vedo, ragazzo mio! Ma sai tu che così pallidetto sei più bello? Mi diceva Callicle le febbri ardentissime che hai avute. – Che febbre, o Innide! e quando era più cocente io sognavo te, e parevami che tu mi risanavi. – Davvero? e come? – Mi pareva che tu mi sedessi in grembo, e con la bella manina tua pigliandomi il garofano lo mettessi nell’altro vasello, e così io mi sentivo risanare. Deh, Innide, per Venere Callipigia risanami a questo modo: tu sola puoi farmi rifiorire – T’intendo, o filosofino, t’intendo: tu vuoi fare con me come voi altri uomini fate fra voi; e mi vieni a contare di sogni. Senti Doro: io so dire alcune parole le quali hanno la potenza di risanare coteste malattie. Oh non ridere: lasciami dire, e vedrai. Se non produrranno effetto, io farò quello che vuoi. – Sono parole magiche? – Sì, magiche. – E se non riuscirà la magia? – Prometto. – Fa dunque l’incantesimo. Innide destramente si scioglie i capelli e se li lascia cadere su le spalle, si apre un po’ la veste sul petto perché compariscano le mammelle, e dice: Vieni qui, o Doro, siedi dirimpetto a me, ginocchia contro ginocchia, dammi le mani, e guardami bene negli occhi. Dimmi un po’: dov’è la bellezza nostra, dico la bellezza degli uomini e delle donne? Nel volto. Nel volto c’è lo sguardo, il sorriso, il bacio, la parola, l’anima tutta quanta. Copri il corpo di vesti, e la bellezza parrà nel volto: copri il volto e scopri il corpo, la bellezza disparisce. Ora godere del corpo senza del volto, è godimento senza la bellezza, è godimento non di uomo ma di bestia che non conosce la bellezza. Tutti gli animali quando si accoppiano fra loro fanno a lo stesso modo: il maschio salta su la femmina, e facendo loro lavorio la femmina guarda giù, il maschio su, e in poche parti del corpo si toccano, e finito quel loro lavorio si spiccano e vanno via. Solamente l’uomo e la donna quando si congiungono, si mettono di faccia a faccia, si guardano negli occhi l’uno dell’altro, e si sorridono, e si baciano, e si dicono dolcissime parolette, e sentono la bellezza nel godimento, il quale gustato così è il maggiore dei godimenti, ed è poi veramente divino se unito ad amore: allora i sorrisi, i baci, le parole sono divinissimi. E poi godendo così di faccia a faccia, tutte le altre parti del corpo si toccano e si congiungono, le cosce a le cosce, il ventre al ventre, il petto al petto, e le braccia stringono, e le mani scorrono per ogni parte, e per la schiena, e su le mele: così che non v’è parte del corpo che non senta di questo diletto nel punto che l’uomo e la donna si congiungono. Quando l’animale si congiunge all’animale il maschio afferra con la bocca la nuca della femmina, e se non l’afferra rimane con la lingua fuori della bocca: noi altri congiungiamo faccia a faccia, bocca a bocca, e nella bocca dell’uno è la lingua dell’altro. Insomma questo godimento negli animali è del corpo, e non di tutto il corpo, negli uomini è godimento di tutto il corpo e di tutta l’anima se è unito ad amore – Doro disse: Qual maga ti ha insegnate queste parole, o Innide? – Io sono ateniese, o Doro, rispose Innide, e noi altre donne ateniesi sappiamo tutte un po’ di magia. E dicendo così sorrise con tanta grazia; e lo guardò con occhi così accesi che Doro fu vinto dalla magia, e baciandole prima le mammelle e i ricci che vi cadeano sopra, disse: Godiamo ora questo divino diletto. E tutti e due nudi si abbracciarono, e con dolci sguardi, e soavi sorrisi, e dicendo, Doro mio! Innide mia! o bellissimo garzone, o vezzosissima maga! si dimenarono un pezzo, e con un sospiro si riposarono.

E nel riposo rimanendo congiunti, Innide con le sue dita di rosa prendendo le due guance del giovanetto gli diede un bacio nella bocca, e gli disse: Ti sono già spuntati i peli sul labbro superiore, e quando ti vidi la prima volta non li avevi: i miei baci te li hanno fatti spuntare, i miei baci te li faranno crescere: e quando saranno cresciuti e avrai un bel paio di baffetti, lisciandoli con la mano tu dirai fra te stesso: Mi sono nati, mi sono cresciuti coi baci d’Innide, e ti ricorderai d’Innide tua, e di questo godimento. Guardami con quei begli occhi! quanto sei bello, o mio Doro, o fiore mio soavissimo! che bell’odore mandano le tue membra! questo tuo petto è d’avorio pulito! – Sono belli gli occhi tuoi, o Innide, e bella questa bocca ond’escono parole che legano il cuore. Innide mia, Innide mia dolcissima ed amatissima. – E gli occhi, e la bocca, e queste parole, e questi baci, e questo godimento che hai ora l’avresti tu, se mi avessi presa a le spalle, e ti godessi tu solo un piacere che certamente è minore di questo, e dessi a me dolore o almeno noia, a me, a la tua Innide che ti parla e ti guarda e ti bacia? – Basta, basta, o maliarda, disse Doro: tu mi inebbrii con le tue parole. Godiamo un’altra volta di faccia a faccia, di bocca a bocca, e confondiamo insieme l’anima mia e la tua. Questo è godimento con intelligenza, è godimento di uomo, ed anche gli Dei hanno voluto goderlo e mescolarsi con le donne: come mi mescolo io con la bella Innide, con la vezzosa maga Innide, e mi sento divenire un Dio. – E goderono insieme la seconda volta.

Non più, disse Innide: che questo ti risana, e più ti nuocerebbe. Rimani ancora a letto, e fa quello che io ti dico. – Ella salta giù, prende una coppa, ci versa del vino e del mele, e la porge al giovane, il quale la beve con piacere. Poi gli si pone a sedere a canto al letto e comincia un chiacchierio, e intanto con la mano gli carezzava leggermente la fronte, e gl’impigliava nei capelli le dita, sì che il giovane a quel favellio a quelle carezze chiuse gli occhi, e si addormentò. Dopo un’ora riaprì gli occhi, ed Innide sorridendo gli disse: Oh sei risanato: ti sono riapparite le rose sul viso. Non te lo dicevo io? Or va, lavati, rivestiti, e torna a casa, che la mamma ti aspetta. Doro non le disse altro, le diede altri baci, e andò a casa dove la mamma fu contenta di vederlo lieto e fiorente come prima.

Capo 6

Doro raccontò all’amico suo quanto gli era intervenuto con Innide, e disse come egli sentiva di voler bene a quella cara donnetta. Callicle non rispose a questo, e soltanto disse che alle donne non si dee richiedere ciò che loro dà noia, e non ha scopo per esse, e soggiunse: ricordiamoci che questo diletto è concesso solamente agli uomini savi. Intanto Doro andava spesso da Innide, e Callicle raramente e quando l’amico ve lo conduceva: pareva che avesse un altro pensiero pel capo.

Un giorno ebbero una lettera che diceva: Venite subito tutti e due. Innide. Andarono, e trovarono la donna che con un doloroso sospiro disse loro: Io vi ho chiamati per vedervi l’ultima volta. Padron Cleonimo ha perduta la moglie, e trovandosi allogati i figliuoli, e solo in casa, vuole che io vada ad abitare con lui. – E tu vi anderai? disse Doro. Sì, rispose ella. – Ma noi, soggiunse Doro, possiamo darti quello che ti dà Padron Cleonimo, che di roba ne abbiamo a bastanza noi, e mio padre ha affidato a me molti affari di casa, e Callicle è padron del suo. – Carissimi giovanetti miei, sanno gli Dei che dolore sento a non vedervi più: ma quel buon vecchio, quel benefattore di mio padre, quello che sollevò mia madre generosamente, quello che tolse me dalla miseria e dalla vergogna, mi dice che egli è ormai solo al mondo, e vuole che io lo assista e gli chiuda gli occhi. Fosse anche egli povero, io ho il dovere di andare da lui e di assisterlo. Sarei una malvagia femmina se gli dicessi di no. E voi, vorreste voi che Innide fosse una malvagia? La figliuola del marinaio, la danzatrice sarà povera, sarà straziata nel cuore, ma non malvagia né ingrata. Ho avuto voi, ho avuto i due bellissimi Callicle e Doro, e questa era tale una felicità che io mi tenea pari a una Dea. Ora gli Dei mi tolgono questo bene inestimabile, ed io ritorno donna come ero prima. – A queste parole Doro divenne pallidissimo nel volto, e Callicle commosso anch’egli, disse: O Innide, e come ti perdiamo dopo di averti conosciuta così buona? – Ma non puoi tu, disse Doro, ancora che sei col vecchio, vederci qualche volta? – No, disse Innide: che se egli lo sapesse, io lo ucciderei. – Qui la donna che sino allora si era contenuta scoppiò a piangere, e si gettò fra le braccia di Doro. Fra un’ora verrà il vecchio, disse. Addio Doro mio bellissimo e carissimo, addio Callicle primo amor mio: ricordatevi d’Innide. – I giovani non sapevano che dire, sentivano la gola stretta, le diedero molti baci tenerissimi, e poi che furono usciti di casa si asciugarono alcune lagrime. Essi ricordarono sempre la buona Innide.

Callicle era pensoso, rimaneva lungamente con gli occhi fissi a un punto, non amava di parlare, e solamente a Doro rispondeva con un breve sorriso: onde Doro gli disse: Che hai tu Callicle, amico mio e fratello diletto? Tu hai certamente un dolore, e perché me lo nascondi? E Callicle mestamente a lui: Ahimé, Doro: io non ho più pace e mi sento morire! Quando ti sopravvenne la febbre e tu ardevi, tua madre tutta dolorosa mi disse: O Callicle, va subito a chiamare il medico Euristeo che è in casa di Eutichete l’areopagita, e fa che venga subito. Io corsi a casa dell’areopagita, e trovai il medico con una fanciulla, una fanciulla che mi parve una Dea, bella come Ebe: leggevano insieme Omero, e il medico gliene spiegava le bellezze. Come ella levò gli occhi per guardarmi, che occhi o Doro, che occhi! io mi sentii correre un fuoco per tutta la persona, e non sapevo dire e che fare. Pregai Euristeo di venire a casa, gli dissi che tu stavi male, ed egli voltosi alla fanciulla: O Psiche, disse, io vado a vedere quel giovane che soffre: tu seguita a leggere e ne riparleremo dimani. Dirai a tuo padre che io sono in casa di Femio. – Nell’uscire io mi rivolsi per vedere la fanciulla, ed ella mi guardava -. Ed hai parlato mai a quella fanciulla? disse Doro – Non mai e solo un’altra volta l’ho riveduta presso al tempio di Cerere con sua madre e due sorelle minori. – Ah, io mi sento morire d’amore! Io non credevo che amore nascesse da uno sguardo, e che ardesse tanto! Che mi consigli, o Doro? – Quali consigli posso darti io che non conosco amore? Preghiamo gli Dei che facciano riuscire a bene cotesta tua passione. Disse Callicle: Ma ella non sa la mia passione per lei, e forse ella mi disprezza la figliuola di Eutichete che porta la cicala su la scarpa, e si tiene più nobile di Teseo. E Doro con certo sdegno: Oh non basta di essere cittadino ateniese per essere nobile? non viviam noi con leggi uguali per tutti? Ma sai, o Callicle, che mi viene in mente? Doride mia madre forse conosce la moglie di Eutichete e la Psiche: apriti a lei: ella ti ama tanto! E così fecero: e la buona Doride si adoperò con tanto buon garbo che Callicle e Psiche si videro, si parlarono, si amarono.

Capo 7 

       Antioco re di Siria sdegnato contro gli Ateniesi per non so qual cagione mandò parecchie sue navi che infestavano i lidi dell’Attica e minacciavano il Pireo. Gli Ateniesi ordinarono subito il loro navile, e scrissero moltissimi combattenti, tra i quali furono dei primi Callicle e Doro, che lasciando ogni altra occupazione o diletto, si volsero interamente alle cure della guerra, e armati di buone armi montarono insieme sopra una delle navi detta la Sparvierata che era assai veloce. Un giorno fu recata la novella che quattro delle navi sire assalivano una terra presso il Capo Sunio, e che in breve l’avrebbero presa, e fatti prigionieri gli abitanti: onde il Navarco spedì subito una squadretta di tre navi più veloci, tra le quali fu la Sparvierata, ed egli uscì dopo con le altre. Le navi sire, presa e saccheggiata la terra, cariche di bottino e di prigioni, si allontanavano dal lido: le tre ateniesi con grande furia le assalirono, e mentre la Sparvierata rasentava una nave nemica, Callicle spiccò un salto, e fu dentro di quella. I Siri lo credettero un Dio disceso dal cielo in mezzo a loro, e colpiti da meraviglia e da paura rimasero inerti: intanto Callicle menava di fieri colpi con l’asta, e atterrò parecchi: pure infine si riscossero i Siri, e lo accerchiarono, e lo ferirono d’una saetta in una coscia, onde egli cadde sopra un ginocchio, e pur combatteva, e li teneva lontani. Non lo uccidete, diceva il Capitano, ma pigliatelo vivo, chè ne avremo una buona taglia. I Siri si stringevano per pigliarlo, ed uno di dietro lo ferì nel capo, sicché il giovane cadde su lo scudo. In quel punto la Sparvierata tornava all’assalto, e Doro gridava: Gli uncini, gli uncini! E come fu gettato il primo uncino che afferrò la nave sira, Doro vi saltò dentro, e ruggendo come un leone e menando colpi disperati, si piantò innanzi al caduto amico, e uccise, e ferì, e fu ferito anch’egli di saetta in una spalla. Intanto sopraggiusero altri ateniesi, e la nave sira dopo un combattimento fiero e breve fu presa. Un’altra nave sira urtata da un colpo di rostro si aprì ed andò a fondo con molte grida di quelli che v’erano dentro: le altre due fuggirono malconce, ma inseguite dal Navarco furono prese anch’esse. Sopraggiunto il Navarco volle vedere la nave su la quale si era combattuto, ne fece togliere Callicle che pareva morto e Doro gravemente ferito, e riporli su la nave sua. Qui furono curati con ogni diligenza, e Callicle aprì gli occhi, e il Navarco gli disse: Sii lieto, o giovane prode: l’onore di questa vittoria è tuo, e dopo di te del tuo amico. E Callicle sorrise leggermente, e strinse la mano a Doro che gli stava vicino. Le navi ateniesi, con le nemiche prese, tornarono nel Pireo. Tosto si sparse la fama dei due giovani e della loro bravura, e tutti gli ateniesi vollero vederli e salutarli con liete grida quando furono messi a terra. Eutichete andò subito col medico a casa dei giovani, e come ce li vide, si commosse ed esclamò: O Dei immortali, o Pallade protettrice, serbate questi due giovani alla città di Atene, salvatemi questo Callicle mio figliolo. Il povero Callicle non poté udire queste parole, ma le udì Doro, il quale dopo alcuni giorni che Callicle riebbe la conoscenza, gliele disse, ed egli ne fu lietissimo, e da quel giorno andò sempre migliorando. Doro risanò presto. Callicle penò due mesi, pure si levò e racquistò sue forze: e tutti e due tornarono belli e gagliardi come prima, e chiedevano di tornar su le navi a combattere a difesa della patria. Ma gli Ateniesi spedirono legati ad Antioco, si rappattumarono con lui, e la guerra finì.

Capo 8

Fu recata a Callicle una lettera da Andro scrittagli da Euridemo fratello di sua madre, il quale gli diceva essere gravemente ammalato, e prima di morire volerlo vedere e affidargli un segreto importante, e andasse presto che buon per lui. Il giovane mostrò la lettera all’amico suo, e tutti e due navigarono ad Andro. Come furono sbarcati sul lido dimandarono ad una filatrice la casadi Euridemo, ed ella alzando la mano col fuso, ed indicando sopra un’altura una casa bianca in mezzo ad un podere, disse: è quella. Salirono i giovani, e giunti ad un cancello di legno furono accolti dai latrati di un cane: venne un servo, legò il cane, e li mise dentro. Videro sotto un pergolato sedere il vecchio Euridemo, il quale benché sofferente si levò ed abbracciò il nipote e gli domandò del compagno, e come seppe che era Doro, disse: Oh, siete entrambi i prodi del Sunio; e abbracciò anche Doro, che lo salutò con quella reverenza che i giovani debbono ai vecchi, ed Euridemo aveva anch’egli combattuto per la sua patria ed era di animo generoso. Poi appoggiato al braccio di Callicle rientrò in casa, e chiamò la figliuola Ioessa: Eccoti il fratel tuo Callicle, e il compagno che combatté con lui. Fa preparare da Ecamede la cena per loro, che debbono essere stanchi pel viaggio lungo e il mare agitato. Era Ioessa una di quelle fanciulle di fina bellezza che si vedono nelle isole dell’Egeo, aveva negli occhi un’aria d’innocenza e di letizia, e guardava serenamente, e soavemente sorrideva. Accolse i giovani con molta grazia, e stata un poco andò a preparare la cena, con la vecchia serva Ecamede, che girando per la casa guardava ai giovani ospiti con molta compiacenza. Intanto Euridemo dimandava mille cose e di Atene, e del combattimento, e delle persone da lui conosciute. Poi che ebbe cenato, ed i giovani furono condotti da Ecamede in una camera sotto il portico dove erano preparati i letti, Doro prese Callicle per mano, e Ohimé, disse, questa tua sorella è così simigliante a te, che io vedendola ho creduto di rivedere te giovanetto. Oh come è bella, come dolce parla, e dolce guarda! Callicle mio, io sento stringermi il cuore.

Il giorno dopo Euridemo era un po’ sollevato: chiamò il nipote, e rimasto solo con lui, così prese a dirgli: O figliuolo della mia buona sorella Tecmessa, io sono lieto di rivederti così giovane e fiorente e di bella fama tra i tuoi concittadini. Ti ho chiamato perché sento che la vita mi manca, e il male che ho può troncarmela in poco tempo, ed io non so a chi lasciare affidata l’unica figliuola mia, la mia diletta Ioessa, che non ha madre, non ha fratelli, e l’unico parente che ci rimane sei tu, Callicle mio. Io moro, e che sarà della mia creatura? E qui pianse: poi seguitò: Io l’affido a te, e voglio che tu le sia padre fratello ed amico. Che ne dici? E Callicle: Questo te lo prometto, e lo giuro per la santa anima di mia madre. – E il vecchio: Se l’amore di padre non m’inganna, ella non ha spiacevole aspetto; e ti so dire poi che essa è buona ed affettuosa come tua madre, e mi ama molto e mi sta sempre intorno, e spesso veglia le notti presso al mio letto, e non sarà trista donna chi è così buona ed amorevole fanciulla. Se a te piacesse, se tu volessi torla, questa casa che non è ricca ma comoda, e il podere che è grande ed è il più bello podere in Andro, e certi risparmi che ho riposti, sarebbero tuoi: e tu avresti donna con dote che difficilmente trovi in Atene, dote d’innocenza e di santi costumi, e poi della tua stirpe, e poi, lasciamelo dire, il più bel fiore di Andro. Io sarei contento, e il morire non mi darebbe affanno. – Tu sarai contento, o Zio, disse Callicle: ma tu sai che prima amore, poi promessa. Io non l’ho veduta che una volta ieri, e per breve ora: lasciami qualche giorno di tempo, che io possa parlarle e conoscerle il cuore, e non dubitare, ti farò lieto.

Dopo alcuni giorni Callicle, il quale si era accorto che Ioessa guardava Doro, e si mutava nel volto, disse all’amico suo le parole dettegli dallo zio, e soggiunse: Tu sai che io amo Psiche e non ho occhi per altra donna. Se come mi hai detto tu senti amore per Ioessa, ed ella per te, come mi pare di aver veduto, vorresti torla tu? Potrei dire a quel povero vecchio che la sua figliuola avrà in te un marito, e in me un fratello ed un amico? – Doro abbracciò Callicle e disse: Sì, fratello mio, io amo Ioessa, e sarei felice se io l’avessi in moglie. Callicle andò subito ad Euridemo, e dissegli: Eccoti consolato, o Euridemo. Amore comanda anche a Giove, e nessuno comanda a lui. Doro ama Ioessa, ed ella lui. Egli la chiede: se tu vuoi dargliela, ella avrà nella vita due amici, in lui un marito, in me un fratello: ed entrambi l’ameremo e saremo suoi sostegni. – Questo anche mi piace, disse Euridemo, ché io conosco Femio e Doride, e questo loro figliuolo e amico tuo mi pare un giovane dabbene. Se si amano, io sono contento. – Interrogò la figliuola, interrogò Doro, e stabilì un parentado: ma il povero vecchio non poté vederlo conchiuso, ché il male gli si aggravò, gli si ruppe il cuore, ed ei morì nelle braccia della sua diletta figliuola. Il dolore fu grande.

Passati i giorni del lutto, e provveduto ad ogni cosa necessaria, i due giovani e la fanciulla tornarono in Atene, e Doride accolse amorevolmente Ioessa, e prese ad amarla come una figliuola. Callicle volle tornare nella sua casa paterna, e seco menò Doro sino alle nozze. Venne il giorno delle nozze, che furono doppie e lietissime. Callicle sposò Psiche, Doro sposò Ioessa: Ciascuno visse in sua casa, ed ebbe figliuoli, e famiglia, e fu onorato dai cittadini. I due amici non più seguirono Platone, che vuole la comunione della donna, ma vollero seguire le leggi della loro patria e seguire amore: e ciascuno d’essi amò ed onorò la donna sua. Pure, essi si amarono sempre tra loro, e sino alla vecchiezza di tanto in tanto per qualche occasione trovandosi nel medesimo letto confondevano i piedi e si abbracciavano come nei primi anni della loro giovinezza.

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Se volete, potete partecipare alla discussione di questo post aperta sul forum di Progetto Gay:

http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=23&t=3700

GESUITI E GAY

Nel 2008 il numero di Giugno di “Aggiornamenti sociali”, rivista della Compagnia di Gesù, pubblicò un lungo articolo (pag. 421-444) intitolato “Riconoscere le unioni omosessuali? : Un contributo alla discussione”

L’articolo così esordisce: “Si può sostenere la disciplina giuridica del legame stabile tra due persone dello stesso sesso sulla base non della sua specifica connotazione sessuale, ma della sua rilevanza sociale e costituzionale? Questa la domanda su cui ha riflettuto un gruppo di studiosi di diverse discipline (etica filosofica e teologica, diritto, scienze sociali). L’obiettivo dichiarato è di contribuire a meglio comprendere, nelle sue molteplici dimensioni e alla luce delle indicazioni del Magistero, una questione controversa e a identificare spazi di dialogo tra opinioni contrapposte.”

 E dopo una dettagliata analisi così conclude:

“Il riconoscimento giuridico del legame tra persone dello stesso sesso, quale presa d’atto di relazioni già in essere, trova la sua giustificazione in quanto tale relazione sociale concorre alla costruzione del bene comune. Prendersi cura dell’altro, stabilmente, è forma di realizzazione del soggetto e al tempo stesso contributo alla vita sociale in termini di solidarietà e condivisione. Ed è proprio per questa relazionalità che il legame tra le persone dello stesso sesso, così come avviene per altre forme di relazione sociale, può essere garantito, non nella forma di un privilegio concesso in funzione della particolare relazione sessuale, ma nel riconoscimento del valore e del significato comunitario di questa prossimità. […]

In questo quadro la scelta di riconoscere il legame tra persone dello stesso sesso appare giustificabile da parte di un politico cattolico. Essa rappresenta un’opzione confacente al bene comune, di promozione di un legame socialmente rilevante, di un punto di equilibrio in un contesto pluralista in cui potersi riconoscere, di risposta praticabile a una esigenza presente nell’attuale contesto storico. E ciò senza mettere in discussione il valore della famiglia, evitando così indebite analogie, abusi e pericolosi scivolamenti verso ulteriori pretese” (p. 444)”

 “La Repubblica” pubblicò un articolo di Zita Dazzi (30 maggio 2008) “I gesuiti aprono alle coppie omosessuali” Su “Aggiornamenti sociali” il sì alla registrazione delle convivenze. In questo modo l’articolo ebbe ampio risalto.

(http://milano.repubblica.it/dettaglio/I-gesuiti-aprono-alle-coppie-omosessuali/1470225)

Queste posizioni sono in fondo strettamente affini a quelle espresse cardinale Carlo Maria Martini, poco prima di morire nella sua conversazione col Senatore Ignazio Marino: “Io ritengo che la famiglia vada difesa perché è veramente quella che sostiene la società in maniera stabile e permanente e per il ruolo fondamentale che esercita nell’educazione dei figli. Però non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili. Io sostengo il matrimonio tradizionale con tutti i suoi valori e sono convinto che non vada messo in discussione. Se poi alcune persone, di sesso diverso oppure anche dello stesso sesso, ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non sia? Io penso che la coppia omosessuale, in quanto tale, non potrà mai essere equiparata in tutto al matrimonio e d’altra parte non credo che la coppia eterosessuale e il matrimonio debbano essere difesi o puntellati con mezzi straordinari perché si basano su valori talmente forti che non mi pare si renda necessario un intervento a tutela.

Anche per questo, se lo Stato concede qualche beneficio agli omosessuali, non me la prenderei troppo. La Chiesa cattolica, dal canto suo, promuove le unioni che sono favorevoli al proseguimento della specie umana e alla sua stabilità, e tuttavia non è giusto esprimere alcuna discriminazione per altri tipi di unioni.”

(http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=2737)

Adista notizie (Fatti, notizie, avvenimenti su mondo cattolico e realtà religiose), sul n.45 del 2008 pubblica un articolo “SI PUÒ FARE. I GESUITI DI MILANO SOLLECITANO IL RICONOSCIMENTO GIURIDICO DELLE COPPIE OMOSESSUALI” in cui con occhio laico esamina l’articolo delle rivista dei Gesuiti. (http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=42873).  Adista osserva che: “Riconosciuto che le cause che concorrono a determinare un orientamento omosessuale sfuggono alla volontà del soggetto, Carlo Casalone, vicedirettore del mensile [dei Gesuiti], afferma che “il compito dell’etica non sta nell’insistere per modificare questa organizzazione psicosessuale, ma nel favorire per quanto possibile la crescita di relazioni più autentiche nelle condizioni date”. La richiesta di riconoscimento giuridico da parte di coppie omosessuali è elevata: infatti, come sottolinea Giacomo Costa, caporedattore, “in assenza di alternative, il modello matrimoniale, pur compreso in senso limitato come ‘riconoscimento pubblico di una relazione affettiva’, rimane un punto di riferimento giuridico, oltre che simbolico per le convivenze omosessuali perché, alla base della rivendicazione, sta un desiderio di riconoscimento tout court della propria dignità”. Uno degli aspetti vissuti con maggiore difficoltà dagli omosessuali è infatti l’essere “socialmente invisibili”: “La lotta per il riconoscimento dei diritti civili e sociali – continua Costa – costituisce di fatto uno sforzo per entrare con il proprio progetto di vita nel ‘ciclo di vita’ della società nel suo insieme”.”

Così Adista prosegue l’esame dell’articolo della rivista dei Gesuiti: “Analizzando le argomentazioni che nella riflessione etico-teologica conducono ad una valutazione morale negativa sulle relazioni omosessuali, Massimo Reichlin, professore di Etica della vita all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, conclude che “è dubbio che tali argomenti giustifichino il rifiuto di qualunque disciplina legislativa delle unioni omosessuali”. “Nella misura in cui non le equipari al matrimonio – continua Reichlin -, ma riconosca alcuni diritti, fondati sulla continuità di una convivenza e di una relazione affettiva, pare difficile sostenere che un simile riconoscimento costituirebbe una svalutazione dell’istituzione matrimoniale o una modificazione radicale dell’organizzazione sociale”. Proprio la continuità e la stabilità della relazione costituiscono, come ricorda Angelo Mattioni, professore di Diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano, “il dato cui la Corte Costituzionale ricollega il necessario riconoscimento di un rapporto che dà fondamento all’esercizio di diritti e all’adempimento di doveri”. La Corte, escludendo l’estensione delle norme che configurano la condizione giuridica della famiglia, di cui all’art. 29 della Costituzione, ad altre forme di convivenza, ha ritenuto loro fondamento costituzionale l’art. 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Come rileva Mattioni, “risultano sostanzialmente irrilevanti le caratteristiche dei membri che fanno parte di tale formazione sociale”: infatti, riconoscendo “nella stabilità la fonte di questi diritti e doveri, risulterebbe contrario al principio di uguaglianza escludere da queste garanzie certi tipi di convivenze”. “Non spetta al legislatore – evidenzia Mario Picozzi, professore di Medicina legale all’Università degli Studi dell’Insubria – “indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell’assunzione pubblica della cura e della promozione dell’altro e di altri”. “Invaderebbe campi che non le appartengono una scelta politica che volesse stabilire a priori forme accettabili di espressione di quel legame e in base ad esse riconoscere e garantire determinate tutele”. “Il riconoscimento giuridico del legame tra persone delle stesso sesso – continua Picozzi – trova la sua giustificazione in quanto tale relazione sociale concorre alla costruzione del bene comune”. “Prendersi cura dell’altro, stabilmente, è forma di realizzazione del soggetto e al tempo stesso contributo alla vita sociale in termini di solidarietà e condivisione”. In questo quadro, la scelta di riconoscere un siffatto legame, “senza mettere in discussione il valore della famiglia ed evitando così indebite analogie” appare, secondo Picozzi, “giustificabile da parte di un politico cattolico”. Essa rappresenta infatti “un’opzione confacente al bene comune, di promozione di un legame socialmente rilevante, di un punto di equilibrio in un contesto pluralista in cui potersi riconoscere, di risposta praticabile a una esigenza presente nell’attuale contesto storico”.”

Come si vede la rivista dei Gesuiti sostiene nel 2008 posizioni che, se suonano comunque minimaliste ad un lettore gay, appaiono per lo meno temerarie alla gerarchia cattolica. Ratzinger si era espresso in proposito in modo radicalmente diverso il 1° ottobre 1986 nella nota  LETTERA AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA  SULLA CURA PASTORALE DELLE PERSONE OMOSESSUALI, quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina delle Fede e aveva ribadito e sottolineato le posizioni nella note   CONSIDERAZIONI CIRCA I PROGETTI DI RICONOSCIMENTO LEGALE DELLE UNIONI TRA PERSONE OMOSESSUALI del 3 giugno 2003

http://nonsologay.blogspot.it/2013/02/papa-ratzinger-e-lomosessualita.html.

Il 19 Aprile 2005 Ratzinger divenne papa e va sottolineato che l’articolo sulla rivista de Gesuiti è del 2008. In sostanza la rivista dei Gesuiti sosteneva posizioni contrapposte alle stesse posizioni contenute nei documenti pontifici. Non è dato sapere quali siano state le reazioni degli ambienti più vicini a Ratzinger dopo la pubblicazione del famoso articolo sulla rivista dei Gesuiti, ma l’argomento omosessualità è di fatto sparito dalla rivista della Compagnia di Gesù. C’è da credere che la santa obbedienza abbia finito per prevalere sulla verità. Il Cardinale Martini ebbe il coraggio di dire una volta che la differenza radicale non è tra credenti e non credenti ma tra pensanti e non pensanti. Martini, di fatto, anche se prudentemente come era ovvio, non ha mancato di dire comunque la sua anche in dissenso con i documenti pontifici, altri si sono attenuti all’obbedienza e hanno ritenuto che fosse loro dovere astenersi dal pensare. Chi ha orecchio per intendere intenda.

Dal 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio, un gesuita, è papa, ed è il primo papa gesuita della storia.

Il cardinal Bergoglio, quando era arcivescovo di Buenos Aires, si è trovato in posizioni di forte polemica col governo argentino sulla questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il 9 luglio 2010, pochi giorni prima della discussione della legge i sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, i l cardinale primate ha indirizzato una lettera alle monache carmelitane di Buenos Aires in cui ha descritto il progetto di legge sul matrimonio tra omosessuali come “una mossa del diavolo” e ha incoraggiato ad aderire alla “guerra di Dio” contro la possibilità che gli omosessuali possono sposarsi. L’ex presidente Nestor Kirchner ha criticato le “pressioni” della Chiesa su questo punto. La Presidente Cristina Fernandez de Kirchner ha accusato Bergoglio in termini forti, giudicando la posizione della Chiesa come “tipica del Medioevo e dell’Inquisizione”.

Nella lettera alle carmelitane si sottolinea che “Questa non è solo lotta politica ma è il tentativo di distruggere il piano di Dio”, e si giudica il progetto per consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso di origine diabolica, “una mossa del padre della menzogna. “

http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=3290

Il 29 marzo 2013, per l’editore Mondadori di Milano, nella biblioteca di Repubblica-L’Espresso, è uscito il libro “Il cielo e la terra” di Jorge Bergoglio e Abraham Skorka, traduzione italiana di “Sobre el cielo y la tierra” (in spagnolo), Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 2010.

In questo libro sono state raccolte le conversazioni che Abraham Skorka, rabbino e rettore Seminario Rabbinico Latinoamericano di Buenos Aires tenne con l’allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, poi divenuto Papa Francesco.

Nel XVI capito del libro dedicato “al matrimonio fra persone dello stesso sesso”, Skorka così esordisce: “il modo in cui è stato trattato il tema del matrimonio omosessuale è stato, a mio modo di vedere, lacunoso rispetto alla profondità che l’argomento meriterebbe. Le coppie conviventi dello stesso sesso sono un dato di fatto oggettivo e hanno diritto a una soluzione legale di problemi quali la pensione, l’eredità ecc. (che potrebbero inquadrarsi in una figura giuridica nuova), ma equiparare la coppia omosessuale a quella eterosessuale è un’altra cosa. Non è solo questione di credo ma di essere consapevoli che il tema concerne uno degli elementi più delicati alla base della nostra cultura. …”

 http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=3413 Queste espressioni sembrano richiamare, anche se in tono minore, il documento pubblicato sulla rivista dei gesuiti nel 2008.

Bergoglio introduce un elemento di novità indicando quanto “non compete” al ministro religioso che “non ha il diritto di intromettersi nella vita privata di nessuno, certo. Se nella creazione Dio ha corso il rischio di renderci liberi, chi sono io per intromettermi? Condanniamo l’eccesso di pressione spirituale, che si verifica quando un ministro impone le direttive, la condotta da seguire, in modo tale da privare l’altro della sua libertà”. Queste affermazioni, però, non sono finalizzate all’apertura a scelte diverse da quelle proposte (e non imposte) dalla Chiesa, perché Bergoglio si affretta a precisare che “Dio ci ha lasciato addirittura la libertà di peccare. Occorre parlare con chiarezza dei valori, dei limiti, dei comandamenti, certo, ma l’ingerenza spirituale, pastorale, non è consentita”.

Bergoglio considera la legge argentina del 2010 come un “regresso antropologico” perché va ad indebolire “un’istituzione millenaria che si è forgiata in accordo con la natura e l’antropologia”, ecco dunque che il rifiuto delle unioni gay equiparate al matrimonio perde l’aspetto del precetto religioso in nome del quale non si può in ogni caso privare l’altro della sua liberà, e assume quello di tutela della legge naturale in opposizione a ciò che è contro natura, e anche quello tutela di un principio dell’antropologia, secondo il quale l’eterosessualità è propria dell’uomo in quanto tale. In sostanza Bergoglio ritiene che la Bibbia non faccia altro che recepire la “legge di natura” che, in materia sessuale, è identificata con l’eterosessualità.

Bergoglio continua con un’affermazione: ”Sappiamo che durante alcuni cambiamenti epocali il fenomeno della omosessualità registrava una crescita” in realtà in quei periodi di cambiamento si allentava il potere repressivo di istituzioni come la Chiesa Cattolica e l’omosessualità non cresceva ma diventava più visibile.

Bergoglio aggiunge: “Ma nella nostra epoca è la prima volta che si pone il problema giuridico di assimilarla al matrimonio, cosa che giudico un disvalore e un regresso antropologico… Insisto, la nostra opinione sul matrimonio fra persone dello stesso sesso non ha un fondamento religioso ma antropologico” e proprio per questo si giustificherebbe la limitazione della sfera della libertà dei singoli e la non parificazione piena degli omosessuali agli eterosessuali.

Bergoglio ricorda che ha dovuto, per la prima volta in 18 anni da vescovo, richiamare l’attenzione di un pubblico funzionario quando il sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, si rifiutò di proporre appello contro una sentenza di primo grado che aveva autorizzato delle nozze omosessuali. Ma Bergoglio fa presente, per ben due volte, di non aver mai parlato di omosessuali e di non aver mai usato termini dispregiativi nei loro confronti e rimarca di essersi solo limitato ad una questione legale.

Nell’enciclica Lumen Fidei, redatta a quattro mani con Benedetto XVI, viene ribadito e valorizzato il ruolo della famiglia intesa come unione tra uomo e donna nel matrimonio: «Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia. Penso anzitutto all’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa nasce dal loro amore, segno e presenza dell’amore di Dio, dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne (cfr Gen 2,24) e sono capaci di generare una nuova vita, manifestazione della bontà del Creatore, della sua saggezza e del suo disegno di amore.» Si nota che Bergoglio, pur nella sostanziale condivisione delle posizioni di Ratzinger, usa toni assai più moderati.

Le ultime sue dichiarazioni in proposito sono informali e sono state rese in aereo, di ritorno dal Brasile dove Bergoglio ha presieduto la giornata mondiale della gioventù. Così Bergoglio si è espresso: «Le lobby tutte non sono buone. Mentre se uno è gay e cerca il Signore, chi sono io per giudicarlo? Non si devono discriminare o emarginare queste persone, lo dice anche il Catechismo. Il problema per la Chiesa non è la tendenza. Sono fratelli. Quando uno si trova perso così, va aiutato, e si deve distinguere se è una persona per bene.». La stampa ha ovviamente enfatizzato l’espressione “se uno è gay … chi sono io per giudicarlo?” ritenendo di poter vedere in quell’espressione una apertura ai gay, ma l’insieme dei se (se cerca il Signore, se è una persona per bene) e la riduzione del discorso, in linea col catechismo, alla sola tendenza omosessuale e soprattutto quel “se uno si trova perso così va aiutato” indicano il senso reale del discorso di Bergoglio, perfettamente in linea col suo motto episcopale: “miserando atque eligendo” cioè: “commiserando e scegliendo”. In sostanza Bergoglio esprime compatimento e tolleranza verso gli omosessuali che chiedono perdono e che lottano contro se stessi pur di ottenere la qualifica di brave persone da parte di chi la concede solo a chi accetta di essere schiacciato dal pregiudizio morale altrui.

Ecco dove finisce la lungimiranza dei gesuiti, quando interviene l’esigenza imprescindibile di mantenere comunque una continuità di dottrina e di potere.

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Se volete, potete partecipare alla discussione di questo post aperta sul forum di Progetto Gay:

http://progettogayforum.altervista.org/viewtopic.php?f=73&t=3692